giovedì 22 novembre 2018

L'"etrusca disciplina"- Parte II (I libri haruspicini)

Le notizie in nostro possesso riguardo alla tecnica dell'esame delle viscere degli animali sacrificali (haruspicina) sono frammentarie e isolate. 
Sappiamo che anche i Romani praticavano questo rito, ma con una differenza fondamentale rispetto agli Etruschi. I Romani, infatti, ponevano al dio una domanda che poteva avere solo una risposta positiva o negativa: occorreva perciò formulare tale domanda in un modo ben preciso. Per l'aruspice etrusco, invece, sono le viscere stesse che parlano e lì si palesa il messaggio della divinità. Inoltre i Romani osservavano le viscere senza estrarle dal corpo; gli Etruschi distinguevano invece vari tipi di vittime: le hostie consultorie, ossia quelle vittime per mezzo delle quali si esplora la volontà del dio attraverso l'analisi delle viscere e le hostiae animales delle quali era consacrato al dio soltanto lo spirito vitale. Tra gli animali il più importante era certamente la pecora (fegato di Piacenza). In genere venivano esaminati il fegato, il cuore, i polmoni e la milza. 
Sappiamo che la mancanza dell'organo (o la sua scarsa evidenza), o un'incisione in esso, era un segno nefasto, come testimonia l'episodio del presagio di Spurinna1 a Cesare2, mentre dimensioni maggiori del normale rappresentavano al contrario un segno favorevole. 
L'esame avveniva seguendo prescrizioni assai rigide: il ministrante tratteneva l'organo,strappato dal corpo della vittima, nella sinistra e passava ad esaminarlo accuratamente attraverso la palpazione con la destra. Si iniziava con una prospezione generale del colore e dell'aspetto esterno. 

Specchio bronzeo raffigurante Calcante, il leggendario indovino
che seguì i Greci a Troia, rappresentato qui con le ali, come una
sorta di personaggio mitico, mentre esamina il fegato di un ovino
(Vulci, inizi IV a.C.)

Del fegato gli aruspici distinguevano due parti, una detta "familiaris", l'altra "hostilis o inimica": probabilmente la prima era così detta perché riferita all'interrogante, mentre la seconda veniva riferita all'avversario (quindi un segno favorevole nella pars inimica era da considerarsi di cattivo auspicio per il consultante, e viceversa). 
La storia degli studi sul fegato di Piacenza è strettamente intrecciata col tentativo di collegare l'aruspicina etrusca con l'altra scuola epatoscopica, quella babilonese caldea, di cui sono testimonianza decine di modelli di fegato iscritti.





Note:

1.Spurinna era originario dell'Etruria, forse di Tarquinia, dove il nome della sua famiglia era uno dei più importanti. I Romani tenevano in grande considerazione gli Aruspici etruschi, e alcuni importanti politici avevano un indovino personale. In occasioni dei Lupercali del 44 d.C. Cesare sacrificò un toro, che si rivelò essere privo di cuore -forse si era raggrinzito o era finito nella cavità toracica. Poiché si credeva che il cuore fosse la sede del pensiero e della vita, Spurinna mise Cesare in guardia, affermando di temere che non solo i suoi piani, ma la sua stessa vita potessero finire male.

2."A impedirci di dubitare di ciò, una prova decisiva è data da quel che accadde poco prima della morte di Cesare. Quando compi un sacrificio in quel giorno in cui per la prima volta sedette su un seggio dorato e si mostrò in pubblico con una veste purpurea, tra le viscere della vittima, che era un bove ben pasciuto, non si trovò il cuore. Credi dunque che possa esistere un animale dotato di sangue che non abbia il cuore? Dalla stranezza di questo fatto egli ‹non fu› sbigottito, sebbene Spurinna gli dicesse che c'era da temere che egli perdesse il senno e la vita: l'uno e l'altra, infatti, hanno origine dal cuore. Il giorno dopo, in un'altra vittima non si trovò la parte superiore del fegato. Questi segni gli erano mandati dagli dèi immortali. perché prevedesse la propria morte, non perché la evitasse. Dunque, quando nelle viscere non si trovano quelle parti senza le quali l'animale destinato al    sacrificio non avrebbe potuto vivere, bisogna concluderne che le parti mancanti sono scomparse nel momento stesso in cui vien compiuto il sacrificio" (Cicerone, De Divinatione, I,119 -Trad. https://professoressaorru.wordpress.com)

BIBLIOGRAFIA
Etruschi: una nuova immagine, a cura di M.Cristofani, Giunti, 2000
Barry Strauss, La morte di Cesare: l'assassinio più famoso della storia, 2015

domenica 11 novembre 2018

Dal Christus triumphans al Christus patiens

Siamo nel XIII secolo quando nella pittura italiana vengono introdotti nuovi modelli iconografici, in particolare quello del Christus patiens, di origine bizantina, che va a sostituire nelle croci dipinte la rappresentazione del Cristo vincitore della morte.

Crocefisso di Ariberto

Rappresentazioni del Cristo morto le abbiamo anche in precedenza- un esempio è il cosiddetto "Crocefisso di Ariberto", risalente a poco dopo il 1018, in cui Cristo è raffigurato col capo reclinato, al momento della morte (non vi è ancora il segno della lancia) -ma nel XIII secolo tale immagine prende piede, coesistendo dapprima e andando a soppiantare poi la raffigurazione del cosiddetto Christus triumphans, un Cristo vivo, trionfante sulla morte.

Crocefisso di San Damiano (1100)

Il Christus patiens è una versione realistica della crocefissione: gli occhi sono chiusi, il capo è reclinato sulla spalla destra, il volto è contratto per la sofferenza, il sangue sgorga dal costato e il corpo è piegato dal proprio peso. 


Crocefisso di Giunta Pisano

(1250-54)

Il passaggio verso una resa più realistica ed umanizzata del Cristo sulla croce parte da Giunta Pisano (1251): tale rappresentazione verrà poi sviluppata in direzione sempre più drammatica da Cimabue (1280) e da Giotto(1296-1300), arrivando ad una resa assolutamente naturalistica.
A partire dalla fine del Duecento, infatti, la pittura italiana vive una fase di profondo rinnovamento, promosso dall'ambiente romano e da quello fiorentino, in particolare attraverso l'opera di Cimabue, Cavallini e Giotto: il legame che unisce Italia e cultura bizantina inizia a incrinarsi e la pittura diventa ritratto di una realtà tangibile.
Il successo dell'iconografia del Christus patiens in questo periodo è spiegato dalla nuova spiritualità degli ordini mendicanti, che colgono ben presto le possibilità offerte dalla nuova arte figurativa, commissionando croci dipinte, pale d'altare e tavole narranti la storia dei santi fondatori. 
E' nella decorazione della basilica di san Francesco d'Assisi che si incontrano l'attività di Cimabue e di Torriti e si forma il giovane Giotto, autore di una rivoluzione fondata sulla riscoperta della realtà e su un nuovo modo di rappresentare lo spazio e i sentimenti umani. Tale lezione si diffonderà poi in tutta la penisola. 



Crocefisso di Giotto in Santa Maria Novella (Firenze)

Nel "Cristo trionfante" eravamo in presenza di un'immagine frontale, particolari anatomici sommariamente delineati, sfondi dorati: ora il cielo è azzurro, i volti espressivi, luce e ombra danno volume e tridimensionalità ai corpi, in un complesso di forte pathos. 
La catechesi sulla Passione passa dunque attraverso queste immagini di grande impatto emotivo, capaci di suscitare nel fedele commozione e viva partecipazione alle sofferenze del Cristo.







Bibliografia:
Aa.Vv. I luoghi dell'arte: dall'età longobarda al gotico, 2008