domenica 28 ottobre 2018

L'"etrusca disciplina" - Parte I (I libri fulgurales)

Quello che possiamo dire della religione degli antichi etruschi si basa prevalentemente sulla tradizione indiretta di scrittori greci e latini, che ci offre però informazioni spesso incoerenti, succinte e lontane nel tempo. Sappiamo che quella che i romani chiamano "etrusca disciplina"  si fonda su una dottrina rivelata, codificata in raccolte e libri, i cui paradigmi fondamentali che vi si trovano sarebbero stati dettati da Tages, figlio di Genius e nipote di Giove, apparso nell'agro di Tarquinia. In realtà la "scienza" etrusca ha visto una lunga evoluzione e il riferimento a Tagete può dunque rappresentare il momento di codificazione del complesso di osservazioni empiriche effettuate da generazioni di indovini. Si palesa infatti una fase di particolare dinamismo in età ellenistica, sotto l'influsso delle speculazioni filosofiche e scientifiche greche e soprattutto delle dottrine astrologiche, divulgate dai discepoli delle scuole caldee. 
Nel I secolo a.C. gli scritti di disciplina etrusca conobbero conobbero una grande fortuna nell'ambiente degli antiquari romani: Tarquinius Priscus, Nigidius Figulus, Julius Aquila e Aulus Cecina tradussero i libri che avevano codificato la dottrina direttamente dall'etrusco, probabilmente deformandoli dall'ottica romana. E' comunque possibile individuare un nucleo sufficientemente solido di tratti genuini. 
La moderna tradizione degli studi ha ordinato la documentazione entro una struttura tripartita, fondandosi su due passi di Cicerone, che propongono una classificazione della letteratura religiosa degli Etruschi in libri fulgurales, haruspicini, rituales. 

La base ideologica della divinazione si basa sulla concezione in cui l'assetto della realtà è sottoposto a potenze divine, che ne garantiscono l'ordine: nulla di ciò che accade avviene dunque per caso e ogni evento acquista dunque una sua relativa prevedibilità. Per l'indagine, il cosmo può quindi essere suddiviso in settori. 
Scrive Plinio 1  "A tale scopo [per determinare la provenienza della folgore] gli Etruschi divisero il cielo in sedici parti(..) divisero poi ciascuna di queste regioni in quattro settori e dissero di sinistra le otto regioni orientali, di destra quelle occidentali". 
All'interno di questo cielo gli Etruschi individuavano i segni che gli dèi inviavano dalle loro sedi sparse nel cosmo.
Questa suddivisione di sedi divine è documentata anche nel celebre fegato di Piacenza, sul cui orlo, nella faccia concava, si trovano sedici cellette, rappresentazione della volta celeste, entro cui sono incisi nomi divini.





Tale documento materiale è stato rinvenuto da un contadino a Settima di Gossolengo, in provincia di Piacenza, nel 1877. Si tratta di un modello di fegato ovino -misura poco più di 12 centimetri- in bronzo, che poteva avere funzioni didattiche o essere attributo di una statua di aruspice.  

I libri fulgurales 

Un oggetto da cui i sacerdoti etruschi traevano auspici era il fulmine e la dottrina che ne concerne è contenuta nei cosiddetti libri libri fulgurales (dei fulmini). Tali testi non erano attribuiti a Tagete, bensì alla ninfa Vegonia. Seneca, che dipende dal volterrano Aulo Cecina, presenta in questo modo la dottrina dei fulmini etrusca:"La scienza relativa ai fulmini si articola in tre momenti: quello dell'analisi (quomodo exploremus), quello della interpreazione (quomodo interpretemus) e quello della espiazione (quomodo exoreremus). La prima parte spetta alla sistematica, la seconda alla divinazione, la terza alla propiziazione degli dèi". 
Il primo aspetto riguarda l'individuazione della provenienza del fulmine e la sua collocazione in una delle sedici regioni, che determina gli dèi folgoratori.
Le parti del cielo comprese tra nord ed est sono quelle di summa felicitas, al contrario quelle da ovest a nord sono le più infauste. A contare non è però solo la provenienza del fulmine, ma anche la determinazione della regione nella quale la folgore ritorna: secondo le teoria del reditus fulminis il fulmine rimbalza, sempre indietro, o lui medesimo o il suo spiritus e il segno più favorevole è quando scocca dalla prima regione e lì ritorna.
Altra teoria riguardo ai fulmini è quella del loro lancio ad opera degli dèi, detto manubia: nove erano gli dèi folgoratori, ma undici a manubia, poiché Giove poteva lanciare tre saette (per il romani, invece, erano due sole le divinità folgoratrici, Giove e Summano). 
Secondo tale teoria, gli effetti dei fulmini di Giove sono commisurati alla partecipazione o meno di altre divinità alla decisione del lancio. Il primo lancio Giove lo compie da solo ed è portatore di un messaggio favorevole. La seconda manubia, avvenuta dopo la consultazione dei dodici Di Consentes, porta ancora qualche vantaggio, ma non senza nuocere. La terza manubia è distruttiva, scagliata dopo consulto con i misteriosi Di Superiores et Involuti 2.
A Marte e Saturno vengono attribuite manubiae particolari: quelle del primo giungono non dal dio, ma dal pianeta, mentre quelle del secondo erompono dalla terra (e sono perciò detti "infernali"). 
Non solo la provenienza del fulmine permetteva di trarre l'auspicio, ma anche il colore. 
Non tutti i fulmini venivano però considerati divinatori: vi era infatti la distinzione di essi in fatidica (ossia, quelli che vengono dall'alto o dalle stelle), bruta (quelli che non significano nulla), vana (quello il cui significato è svanito). 
Vi era poi un tipo particolare di fulmine, detto regale, che colpisce il foro, il comizio o i principali luoghi di una libera città, preannunciando pericoli di monarchia.

Le fonti ci informano abbastanza dettagliatamente di un rito di purificazione del luogo colpito da un fulmine. Descrive Lucano3  l'aruspice Arrunus mentre si aggira mormorando preghiere e raccogliendo i tizzoni del fulmine, seppellendoli poi con cura in un luogo recintato e dedicato al dio dal quale la folgore è stata lanciata.

      A motivo di tutti questi avvenimenti si decretò di far intervenire, 
      secondo l'antica consuetudine, gli aruspici etruschi. Il più vecchio di 
      essi, Arrunte, che abitava le mura di Lucca deserta, esperto 
      nell'interpretare i movimenti della folgore e le calde vene delle fibre e 
      i presagi degli uccelli erranti nell'aria, ordina per prima cosa di 
      eliminare i parti mostruosi, che la natura, che non seguiva più le sue 
      leggi, aveva generato senza alcun seme, e di bruciare con fiamme funeste 
      gli orrendi prodotti di uteri infecondi. Subito dopo comanda ai cittadini 
      impauriti di fare il giro dell'intera città e ai sacerdoti, cui spettavano 
      i sacrifici, di percorrere il lungo pomèrio agli estremi confini 
      dell'Urbe, purificando le mura con una solenne processione. Tien dietro il 
      gruppo degli assistenti, succinti secondo l'usanza di Gabii, e a capo del 
      gruppo delle Vestali è la sacerdotessa adorna di bende: a lei soltanto è 
      lecito vedere la troiana Minerva; seguono quelli che custodiscono la 
      volontà degli dèi e i segreti responsi e riconducono il simulacro di 
      Cibèle, dopo averlo bagnato nel piccolo Almone, e l'àugure esperto 
      nell'osservare gli uccelli provenienti da sinistra e il settèmviro, che 
      regola i sacri banchetti, e i Tizii sodali e il Salio che reca lieto sul 
      collo gli scudi sacri e il flàmine con la tiara sul nobile capo. E mentre 
      tutti costoro compiono in processione il giro della città, percorrendola 
      tutta quanta, Arrunte raccoglie i fuochi sparsi di un fulmine e li 
      seppellisce con un mesto mormorio e consacra il luogo alla potenza divina.4


Le folgori poi potevano anche essere addirittura evocate in particolari situazioni, come fece Porsenna che evocò un fulmine contro il mostro Volta che andava danneggiando le campagna di Volsinii 5








Note:
1.Plinio, Naturalis historia, II,143
2. Alcuni studiosi moderni li hanno identificati con il Fato.
3. Lucano, De bello civili libri, I, 608
4.Trad. Progetto Ovidio
5. Plinio, Naturalis historia, II,140

Bibliografia:
Etruschi: una nuova immagine, a cura di M.Cristofani, Giunti, 2000
M. Pallottino, Rasenna, Storia e Civiltà degli Etruschi, Libri Scheiwiller, 1986
A. D'Aversa, L'Etruria e gli Etruschi negli autori classici, Paideia, 1995


mercoledì 17 ottobre 2018

La rinascita dell'alchimia in Occidente

Il termine «Alchimia» deriva dall'arabo Kimiya, uno dei nomi del reagente per la trasformazione dei metalli in oro: il lapis philosophorum occidentale.1
Gli alchimisti occidentali fanno generalmente risalire l'origine della loro arte all'antico Egitto.2
Fu poi in un ambiente fecondo e sincretistico come Alessandria che i Greci, appropriatisi delle dottrine ermetiche degli Egiziani, le mescolarono con le filosofie del Pitagorismo, della scuola ionica e successivamente dello Gnosticismo. 3
Noi non siamo in possesso di documenti originali egizi sull'alchimia, che forse andarono perduti nell'incendio che nel 391 distrusse la biblioteca di Alessandria. Conosciamo però l'alchimia tramite opere di filosofi greci, sopravvissute in traduzioni islamiche.
La distruzione della Biblioteca, infatti, segnò la fine del centro culturale greco, spostando il processo dello sviluppo alchemico verso il Vicino Oriente.

Nell'Occidente altomedievale si era persa, o forse era sopravvissuta in frammenti, quella conoscenza specificatamente ermetica propria dell'alchimia, anche se le biblioteche monastiche ebbero una fondamentale funzione nel diffondere le conoscenze contenute negli erbari bizantini e italo-meridionali.4

E' solo con l'XI e il XII  secolo e il risorgere dei traffici mediterranei, la Reconquista e le crociate, l'organizzazione di scuole cattedrali e di Università, che vennero reintrodotte in Occidente  branche della cultura scientifico-filosofica di matrice classica o tardoantica.
Siamo in un secolo in cui mentre l'Occidente esporta materie prime, vede importare dall'Oriente prodotti rari e oggetti di pregio, che giungono da posti come Bisanzio, Damasco, Bagdad. Il portato della cultura araba non si limita però a beni materiali: insieme con le spezie e la seta, i manoscritti recano all'Occidente cristiano la cultura greco-araba.5

Erano nati così  in Italia numerosi centri di traduzione dal greco e dall'arabo, in cui vennero tradotti anche molti testi di argomenti astrologico.
L'arabo, infatti, è prima di tutto un intermediario. Le opere di Aristotele, Euclide, Tolomeo, Ippocrate, Galeno erano stati accolti da biblioteche e scuole musulmane. "Ed eccoli ora, in un periplo di ritorno, approdare alle rive della cristianità occidentale" 6

Due sono le zone principali di contatto che accolgono i manoscritti orientali: l'Italia e più ancora la Spagna.7
E' presso i re normanni di Sicilia prima, Federico II poi, sino a Toledo riconquistata all'Infedele nel 1087, che sono al lavoro i traduttori cristiani, sotto la protezione dell'arcivescovo Raimondo (1125 -1151).

E sono proprio i traduttori i pionieri della rinascita dell'alchimia in Occidente: qui infatti non si conosce più il greco e la lingua scientifica è ormai il latino. Vengono così tradotti originali arabi, versioni arabe di testi greci e originali greci.8
Oltre alla traduzione del Corano, voluta da Pietro il Venerabile di Cluny nel 1141 ed operata da Roberto di Chester, Ermanno il Dalmata, Pietro di Toledo e il saraceno Mohammed, per confutare le tesi del musulmani, i traduttori permisero di colmare le lacune lasciate dall'eredità latina nella cultura occidentale; oltre a  filosofia, matematica, astronomia, medicina, fisica, logica ed etica, anche l'alchimia, trasmettendo ai latini "la ricerca febbrile dell'elisir."9

Si stabilisce convenzionalmente il ritorno dell'alchimia in Occidente  nel 1144: è infatti in questa data che abbiamo la traduzione latina del Liber de compositione alchimiae ad opera di Roberto di Chester. 



Siamo in un'epoca in cui viene meno la distinzione tra arti liberali e servili: l'uomo si afferma come un artigiano che trasforma e crea, cooperatore della creazione con Dio e con la natura.10

Il mondo medievale già ereditava un bagaglio di miti e di riti relativo all'attivazione delle proprietà di talune specie vegetali dal mondo romano e, attraverso questo, indirettamente da quelli greco e orientale. Altre conoscenze relative alle virtù mitiche delle piante provenivano dalla Bibbia; altre ancora dal mondo celtico e germanico, con il quale i missionari cristiano-latini erano venuti in contatto. 
La tradizione esegetica del libro della Genesi forniva da sola materia sui misteri delle piante e delle loro provvidenziali virtù. Tale Libro restava garante di una natura fondamentalmente buona e amica dell'uomo nonché di un potere in origine concesso a questo su quella.11
"Dio, distinguendo la proprietà dei luoghi e dei nomi, ha assegnato alle cose le loro misure adeguate e le loro funzioni, come alle membra di un corpo gigantesco. Neppure in quel momento remoto [la Creazione] vi fu in Dio nulla di confuso, di informe, giacché la materia delle cose, sin dalla sua creazione, è stata formata in specie congruenti", così Arnaldo di Bonneval di Chartres commentava la Genesi.12

Nel XII secolo Marbodo di Rennes scrisse un celebre "lapidario", ossia un trattato sulle proprietà delle pietre, denso di informazioni sulle virtù magico-terapeutiche delle gemme. Sempre in questo secolo Alberto Magno e Vincenzo di Beauvais credevano alla possibilità di trasmutare i metalli più vili in oro, sulla scorta di un testo schiettamente magico quale la Tabula smaragdina:  partendo dalla Materia Prima che non è dotata di alcun attributo e aggiungendo a essa i caratteri del più pregiato fra i metalli.13




!In certi ambienti, come la scuola di Chartres, l'interesse per la filosofia s'accompagnava all'indagine nel campo delle discipline "magiche", intese come più profondi metodi di ricerca delle cose occulte che producono i fenomeni soprannataurali. 
Per i monaci del complesso abbaziale,  la Natura è una potenza perpetuamente creatrice, dalle inesauribili risorse, ma è anche il cosmo, un insieme organizzato e razionale; è la rete delle leggi che con la loro esistenza rendono possibile e necessaria una scienza razionale dell'universo: il mondo non è infatti assurdo e incomprensibile, bensì ordine e armonia.14 Veniva però fatta una distinzione -non sempre chiara – tra magia naturale (si credeva tradizionalmente ai poteri delle pietre) e cerimoniale/rituale, tra magia lecita e illecita. 

Non si trattava soltanto di mantenere o recuperare la salute: si trattava anche di riflettere sull'intima rispondenza tra tutte le cose del creato; sull'armonia che regnava tra i pianeti, gli animali, le piante, i metalli e l'uomo stesso. 

Nel XIII secolo vediamo le nuove scienze, fra cui anche quelle a carattere magico-astrologico, entrare nelle sedi universitarie ed essere promosse da una serie di sovrani come Federico II, Alfonso X di Castiglia: presso le loro corti venivano infatti tradotti e studiati numerosi testi riguardanti discipline magico -cabalistiche e alchemiche.15

La sapienza di autori come Galeno e Olimpiodoro (V secolo) sarebbe tornata all'Occidente a partire dal XIII secolo, con Alberto Magno (e nei molti apocrifi che venivano fatti circolare sotto il suo nome):  figure simboliche, pianeti, metalli, animali e piante, erano posti in parallelo, considerati per gruppi analogici e nei loro rapporti con l'uomo.16

"La Spagna della Reconquista era un crocevia di culture -cristiana, ebraica, araba. Nella seconda metà del Duecento vi operavano grandi personaggi quali Raimondo Lullo (1235 -1325) e Arnaldo da Villanova (1238 -1311), entrambi al pari di Ruggero Bacone animati da una profonda tensione mistica che sfociava nell'interesse per le discipline magico-cabalistiche e alchemiche"17

Chartres è il grande centro scientifico del secolo. Alle arti del trivium (grammatica, retorica, logica) preferiva quelle del quadrivium, ossia aritmetica, geometria, musica, astronomia, spirito alimentato dalla scienza greco-araba. La conformazione del globo, la natura degli elementi, la posizione delle stelle, la natura degli animali, la violenza del vento, la vita delle piante e delle radici. 
"Così sono esaltate e rese popolari talune grandi figure del passato che, cristianizzate, divengono i simboli del sapere. Salomone è il maestro di tutta la scienza orientale ed ebraica, ma anche il grande rappresentante della scienza ermetica sotto il cui nome vien posta l'enciclopedia delle conoscenze magiche, il padrone dei segreti, il detentore dei misteri della scienza"18

Fu proprio nell'ambito della scuola cattedrale di Chartres che si elaborò la dottrina dell'uomo come "microcosmo", che porta a delle rispondenze tra uomo e natura che consentirebbero al primo di intervenire sulla seconda, anche al fine di manipolarla.19

Tra gli esponenti più importanti di questo periodo si può annoverare Raimondo Lullo (1232 -1315)che, nel suo Liber de segretis naturae,  tentò un'interessante giustificazione dell'alchimia in relazione al concetto di libero arbitrio dell'uomo, sostenendo che l'alchimia non potesse essere condannata dalla Chiesa, perché la scelta di bene o male appartiene al libero arbitrio dell'uomo, che è frutto della sua ignoranza, ma l'ignoranza è voluta dalla giustizia di Dio che può volere solo il bene. 

Sappiamo però che, se inizialmente gli studi alchemici furono approfonditi anche da personaggi appartenenti alla sfera ecclesiastica, si arrivò infine ad una condanna dell'alchimia da parte della Chiesa: oltre alla condanna di San Tommaso d'Aquino nella Summa, gli atti capitolari che tra il 1272 e il 1373 proibirono ripetutamente studio e pratica dell'alchimia a Francescani e Domenicani – e ciò ci porta a pensare che fosse assiduamente praticata – è famosa la "Spondet quas non exhibent", in cui si sostiene che o gli alchimisti che sostengono di aver trasmutato vili metalli in oro sono truffatori o lo hanno fatto col concorso della magia (e quindi del Diavolo). 
L'alchimia nel Rinascimento ebbe ancora molta fortuna. 


Tarsia marmorea nel Duomo di Siena (Giovanni di Stefano, 1448)

               
1. Voce "Alchimia" nell'Enciclopedia Treccani online
2. J. LINSDAY, Les origines de l'alchimie dans l'Egypte greco -romaine, Monaco, 1986
3. WIKIPEDIA, alla voce "Alchimia"
4.  M. MONTESANO, Magia, l'eterno fascino dell'occulto -Medioevo Dossier, , p.40
5.  J. LE GOFF, Gli intellettuali nel Medioevo, 1993, p.16
6.  Ibidem
7.  Ibidem
8.  J. LE GOFF, Gli intellettuali nel Medioevo, 1993, p.17-18
9.  J. LE GOFF, Gli intellettuali nel Medioevo, 1993, p. 20
10.  www.ndonio.it
11.  M. MONTESANO, Magia, l'eterno fascino dell'occulto -Medioevo Dossier, p.40
12.  J. LE GOFF, Gli intellettuali nel Medioevo, 1993, p. 54
13.  M. MONTESANO, Magia, l'eterno fascino dell'occulto -Medioevo Dossier, p. 50-51
14.  Ivi, pp.53-54
15.  M.MONTESANO, Magia, l'eterno fascino dell'occulto -Medioevo Dossier, p.52
16.  M. MONTESANO, Magia, l'eterno fascino dell'occulto -Medioevo Dossier, pp. 52, 55 p.40
17.  Ivi pp. 52, 55
18.  J. LE GOFF, Gli intellettuali nel Medioevo, 1993, p.51
19.  M. MONTESANO, Magia, l'eterno fascino dell'occulto -Medioevo Dossier, p. 52

sabato 13 ottobre 2018

Politica d'immagine neroniana

L’immagine che Nerone voleva dare di sé non era disconnessa dal suo programma politico. L'imperatore romano si considerava un artista, un dinasta ellenistico, un Apollo. «Quale artista muore con me!»,1 si sarebbe rammaricato poco prima di morire. E doveva essere vero, se persino Svetonio, che aveva trovato negli archivi imperiali manoscritti con dei versi di Nerone, li giudicò originali. 2 Il ruolo dell’artista, però, mal si accordava con quello di imperatore, essendo il primo un elemento ai margini della società. 

Quelle a cui Nerone dava la sua preferenza non erano la materie consuete per un aristocratico: si interessava infatti non solo di poesia, ma anche di musica e architettura, discipline ritenute indegne di un nobile romano, così come anche pittura e scultura. Significativo era il modo in cui portava i capelli: ondeggianti e lunghi fino alle spalle secondo una moda ricorrente tra gli aurighi, gli attori e, in genere, le persone di basso ceto. 3

Una volta salito al trono, Nerone cercò di realizzare quello che la madre, il prefetto del pretorio Afranio Burro e Seneca avevano cercato di impedirgli prima. Delle arti che amava egli non fu solo spettatore, tanto ad un certo punto arrivò persino ad esibirsi in pubblico, come citaredo e auriga durante gli Iuvenalia (59 d.C.).4 Nel 60 istituì delle feste in stile greco, in seguito chiamate Neronia, che dovevano essere celebrate con cadenza quinquennale. Alla parte artistica del programma, seguendo la tradizione greca, appartenevano recite ed esibizioni musicali; del tutto inusuali per i Romani erano invece le competizioni atletiche, in cui i partecipanti si esibivano nudi. La prima replica dei Neronia era fissata per il 64, ma il momento era inopportuno, a causa dell’incendio; così la celebrazione fu rimandata al 65. I timori di molti senatori si realizzarono, quando Nerone debuttò in prima persona. 

Forse il suo non era però mero esibizionismo, ma faceva parte di un particolare programma politico: guadagnare popolarità tra la plebe di Roma, e probabilmente mostrare al senato la propria libertà di decisione. 5 Non tutti però concordano sul fatto che le iniziative filoelleniche e le sue esibizioni personali perseguissero il fine educativo di rendere familiari elementi della cultura greca che fino ad allora avevano avuto scarsa attenzione a Roma. Ad esempio lo storico J. Malitz ritiene che «difficilmente questo scopo poteva essere raggiunto nei modi egocentrici scelti dall’Imperatore». 6

Nerone non ruppe i canoni solo per via delle sue passioni non convenzionali per un imperatore – e delle conseguenti manifestazioni pubbliche – ma anche per via della sempre maggiore impostazione teocratica data al suo potere. 7 Egli, infatti, cercò di far accettare ai Romani una nuova e molto diversa scala di valori, mirando ad affrancare questi ultimi dai tabù dei loro antenati, con la creazione di un nuovo codice socio –culturale e lo sconvolgimento delle antiche istituzioni. 8 Inizialmente desiderava apparire come un moderato – anche in province come l’Egitto - rifiutando alcune manifestazioni troppo esplicite di divinizzazione, come accettare la dedica di un tempio o di un santuario, ma non ne rifiutò altre come la sua statua portata in processione. 9 In Grecia sarà proclamato sotér ed euergétes. 10 Altri segni di questa adorazione si possono ravvisare nell’iscrizione di Ptolemaia del 60 o nella monetazione alessandrina nel 62/63 in cui Nerone viene definito o sotér tes oikouménes , mentre nelle monete di Kyme e Synaos in Asia minore è definito senza mezzi termini theós

La mistica dell’areté regale ed ellenistica non si limitò al solo Egitto e alle regioni orientali, 11 ma si propagò nelle province settentrionali, come testimonia la colonna di Magonza, 12che dall’iscrizione sappiamo eretta –probabilmente nel 58 – per la guarigione di Nerone.
Questa colonna è stata definita un inno imperiale, in quanto tutte le rappresentazioni con le divinità preferite dall’Imperatore, tutti i simboli più diffusi vi sono riuniti a testimoniare come ormai l’imperatore tenga in sé i destini del mondo. 13 Nel decreto di Akraiphiai per la libertà dei Greci Nerone viene definito o tou pantós kósmou kúrios, nonché Néos Helios. 14 Nerone tenderà sempre maggiormente all’ideale del basiléus ellenistico, adottando anche alcuni elementi della liturgia aulica ellenistica, espressione concreta della dottrina teocratica, e favorendo l’adorazione che gli veniva tributata presentandosi come un dio vivente. 15
Questa svolta in senso autocratico ad un certo punto uscì dai confini provinciali: nel 66, nelle celebrazioni della sottomissione dell’Armenia  16 svoltesi a Roma, Tiridate prende dalle mani di Nerone la corona, prostrandosi a lui come si fa di fronte a un dio, riconoscendolo signore del mondo. Pur rimanendo in alcuni ambiti un moderato –come quando a Roma si voleva erigere un tempio in suo onore – Nerone finì dunque per favorire l’adorazione che gli veniva tributata presentandosi come un dio. 17

La concezione che Nerone aveva di sé e del suo ruolo e questa svolta in senso teocratico si rifletteva nella sua politica d’immagine. E’ del 59 la creazione di un nuovo ritratto con cui rinnovò profondamente l’immagine imperiale, aderendo ai modelli ellenistici. 18 Inoltre l’esordio di Nerone sulla scena come citaredo e attore, nel 65, produsse nuove immagini estranee alle consuete iconografie imperiali. Svetonio infatti riferisce che al ritorno dalla Grecia, potevano vedersi rappresentazioni dell’Imperatore in alcune statue e nella monetazione in veste di citaredo – Apollo 19 (fig.1), quindi di un Nerone divinizzato. Infatti, oltre a riferirsi alla sua vocazione artistica, questo apollineismo avrebbe anche avuto la funzione politica di esaltare la teocrazia solare. 20


           1. Nerone raffigurato come Apollo con la lira. 
              Asse in oricalco, 64/65 d.C. 
              (E. CIZEK, La Roma di Nerone, 1986 – apparato illustrativo) 

Dall'assimiliazione ad Apollo e l'accostamento al Sole il passo era breve: segno di questo mutamento nel tipo ritrattistico è l'adozione della corona radiata, indossata per la prima volta nel 64(fig.2).

2. Aureo raffigurante Nerone in toga stante e radiato 
(M. CADARIO, Nerone e il potere delle immagini, in Nerone, a cura di M. A. TOMEI, R. REA, 2011, p. 183) 


Il ritratto di questo imperatore doveva illustrarne il potere benefico, indicando in Nerone l'artefice di una nuova età dell'oro. La scelta della corona radiata, un indubbio attributo solare che caratterizzava però anche l'immagine ufficiale del Divo Augusto, doveva puntare in effetti molto sull'ambiguità di un simbolo che era ormai considerato anche un attributo del princeps divinizzato. 21

Più del nuovo Apollo, Nerone sarebbe dunque innanzitutto il nuovo Sole, risplendente sul mondo romano ed ellenistico: in altre parole saremmo in presenza di "un'eliolatria" all'egiziana. 22
A questo allude Seneca quando scrive:"Una gran luce è rivolta in te e tutti gli sguardi sono rivolti verso di essa. Tu credi di uscire? In realtà sorgi!". 23L'identificazione col sole nascente la attinge dagli Egizi, che così designavano i loro faraoni. 24
Un altro segno dell'identificazione Nerone-Sole è dato dall'altare di Eumolpo, uno schiavo che lavorava per la Domus Aurea(fig.3)

  

                          3. Altare di Eumolpo (M. CADARIO, 
                          Nerone e il potere delle immagini, in Nerone, 
                          a cura di M. A. TOMEI, R. REA,2011, p. 183


Si tratta di un altare privato al cui centro l'immagine radiata del Sole è però caratterizzata dal volto di Nerone e dal costume di auriga. 25

Ed è poprio nella Domus Aurea che si offre una rappresentazione monumentale di questa concezione, nel colosso raffigurante il Sole inserito nel vestibolo. 

"La concezione d'insieme [della Domus Aurea], che aveva la pretese di riunire le diverse facce dell'universo in un microcosmo interamente dominato, è espressione della megalomania di Nerone e di una mistica solare probabilmente ereditata dall'Egitto. Ma non va dimenticato che questo rientrava nella logica dell'evoluzione politica ed ideologica dell'Impero. L'originalità di Nerone è di aver realizzato a Roma ciò che Adriano (con una prospettiva più "culturale" che "cosmologica") avrebbe realizzato fuori dalla città con la sua villa di Tivoli. 26 

In conclusione: Nerone vedeva se stesso come un innovatore, un instauratore di una nuova età dell'oro, colui che educa il rozzo popolo romano al gusto greco, un dinasta ellenistico, colui che merita di essere assimilato ad un dio. E l'abitazione di un simile personaggio, che si ritiene eccezionale, non può che essere eccezionale anch'essa: la Domus Aurea, con terreno annesso, si estendeva a occupare gran parte della città: mai, né prima, né dopo, un sovrano riuscì ad avere un così grande spazio all'interno della Capitale. 


Note:
1. GAIO SVETONIO TRANQUILLO, De vita duodecim Caesarum , VI, 49
2. Ivi, 52
3.   M. FINI, Nerone –duemila anni di calunnie, 2009, p. 21
4. Fino alla morte di Agrippina l’arte di Nerone era rimasta un diletto privato.
5. J. MALITZ, Nerone, Bologna 2003 , p. 48
6. Ivi, p. 49
7.  Augusto non si fece tributare onori divini, ma divinizzando il padre Cesare, veniva ad essere, di fatto, figlio di un dio, quindi un dio egli stesso. Caligola invece li accettò volentieri, avendo cominciato ad attribuirsi la maestà divina. Claudio, suo successore, mise fine al tentativo di orientalizzazione dell’Impero, proponendo un ritorno al tradizionalismo augusteo. 
8.   E. CIZEK, La Roma di Nerone, Milano, 1986 , p. 76
9. Ibidem
10. OGIS (Orientis Graeci Inscripriones Selectae), 668
11. Il particolare legame che Nerone aveva con l’Egitto è dovuto anche al suo rapporto con Cherèmone, lo stoico egiziano che gli aveva fatto da precettore, ma anche con Seneca che lì aveva soggiornato a lungo.
12. In alto sulla colonna sta Giove, sulla base, nei bassorilievi, sfilano Apollo, Ercole, ancora Giove, Vulcano – forse a significare di aver domato l’incendio di Roma – Marte e Nettuno –simboli della vittorie per terra e per mare – Minerva e Mercurio - simboli degli incrementi dati alle scienze, ai traffici, la Fortuna, la Felicitas, la Salus etc (MOMIGLIANO 1992, p. 384)
13. A. MOMIGLIANO, Nono contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico,  a cura di Riccardo di Donato, Roma, 1992 , p. 384
14.   O. MONTEVECCHI, Scripta Selecta, a cura di Sergio Daris, Milano, 1998,p. 128
15. CIZEK 1986, p. 76, 77
16. L’Armenia era collocata tra l’Impero romano e il regno dei Parti ed era quindi particolarmente importante nello sviluppo dei rapporti tra di due stati. Poco dopo la morte di Claudio l’Armenia fu conquistata da Tiridate, fratello di Vologese, re dei Parti. Dopo varie vicessitudini, volendo evitare un conflitto, Tiridate si disse disposto a deporre il proprio diadema davanti ad una statua di Nerone e a dichiarare che lo avrebbe cinto di nuovo soltanto a Roma, ricevendolo dalla mani dell’Imperatore.
17.  CIZEK 1986, P. 77 – 79 L’associazione Nerone – Apollo non era una novità di quegli anni: l’immagine di un Nerone Alter –Apollo si era imposta fin dai primi mesi del suo regno. 
18.  M. CADARIO, Nerone e il potere delle immagini, in Nerone, a cura di Maria Antonietta Tomei e Rossella Rea, 2011, p. 182
19. SUET., VI, 25
20. CADARIO 2011, p. 183
21. CADARIO 2011, p.185
22. CIZEK 1986, p. 79
23.  SENECA, De Clementia  I, 8, 4
24.  CIZEK 1986, p. 79
25. CADARIO 2011, p. 185 L’immagine rimanda alla raffigurazione di Nerone auriga solare mostrata al popolo il giorno della cerimonia dell’incoronazione di Tiridate.
26.  P. GROS - M. TORELLI,  Storia dell’urbanistica - il mondo romano, Bari, 2007, p.216


domenica 7 ottobre 2018

Le sembianze del Male

"Oh quanto parve a me gran meraviglia
quand'io vidi tre facce a la sua testa!
L'una dinanzi, e quella era vermiglia;
l'altr'eran due, che s'aggiugnieno a questa
sovresso 'l mezzo di ciascuna spalla,
e sé giugnieno al loco de la cresta:
e la destra parea tra bianca e gialla;
la sinistra a vedere era tal, quali
vegnon di là onde 'l Nilo s'avvalla.
Sotto ciascuna uscivan due grand'ali,
quanto si convenia a tanto uccello:
vele d ma non vid'io mai cotali.
Non avean penn, ma di vipistrello
era lor modo; e quelle svolazzava,
sì che tre venti si movean da ello:
quindi Cocito tutto s'aggelava.
Con sei occhi piangea, e per tre menti
gocciava 'l pianto e sanguinosa bava".
XXXIV canto dell'Inferno di Dante (1265-1321), vv. 37-54

Il Diavolo al centro del Cocito, illustrazione di Gustave Doré (1832-1883)

Quando il Diavolo inizia ad essere rappresentato secondo quella che oggi è l'immagine classica, connotata da corna, coda e ali da pipistrello? Innanzi tutto occorre dire che non da subito l'iconografia va a rappresentare questo personaggio con tali connotati: sia il primitivo giudaismo, sia l'arte paleocristiana lo raffigurano sotto forma di serpente, aspide, leone. 
Inoltre la frequenza nelle rappresentazioni non è però ampia come lo diventerà a partire dall'XI secolo, quando i portali delle chiese, i fogli dei codici si affolleranno di demoni e  il Diavolo inizierà ad assumere quei connotati di bruttezza e mostruosità che solo poi lo porteranno all'immagine classica: un Demonio con coda, orecchie animali, barba caprina, artigli e zampe da capro. 


Qual è quindi l'origine di tutti questi attributi?
Anzitutto occorre contestualizzare la comparsa della rappresentazione di un Diavolo “antropomorfo” nell'epoca della cosiddetta “arte romanica” (aggettivo coniato dagli storici dell'arte che allude alla matrice romana ancora individuabile in molti aspetti dell'arte  di questo periodo2





Dopo il Mille, infatti,  scultura e architettura conoscono una rapida e generalizzata rinascita in tutto il territorio europeo: i temi rappresentati sono vari e fantasiosi: quelli di carattere religioso sono in genere di ispirazione biblica, preferendo la Genesi, la vita di Cristo e il Giudizio Universale, ma anche singoli santi, angeli e profeti.







Si sviluppa così in questo periodo anche un fantasioso repertorio di mostri e bestie infernali: tali raffigurazioni davano al popolo analfabeta la visione cristiana del peccato sotto le forme repellenti dei demoni pagani, come nei capitelli della chiesa de La Madeleine a Vezelay, in Francia e risalenti al XII secolo3
O come anche il piccolo ghignante diavolo in bilico su uno dei capitelli di Autun o il demonio peloso dai lunghi capelli presso la cattedrale di Reims. Ne sono solo alcuni esempi.
Qui vediamo chiaramente di come il demonio assuma caratteri mostruosi: vi è infatti un'esasperazione dei tratti fisiognomici: le bocche sono spalancate oltre misura e vediamo spuntare sul suo capo delle corna. 
“La bocca riveste un'importanza particolare nell'immagine diabolica; è ampiamente aperta, contratta in una smorfia animalesca, smisurata, spalancata per far uscire la lingua (…), o addirittura totalmente deformata (…). Reminescenza delle fauci del Leviatano, simbolo del luogo infernale, la bocca esprime il suo potere minaccioso"4

Vi è inoltre un'accentuazione della nudità, considerata degradazione.
L'apparizione di mostri e demoni è più frequente di quella di santi o di angeli. Le astuzie del Maligno sono innumerevoli e colpiscono l'immaginazione, e visioni diaboliche ossessionano gli spiriti e vengono scolpite nella pietra"5

Alla base di tali caratteristiche vi è l'idea della mostruosità del peccato, manifestata con il rovesciamento dei connotati umani. Il diavolo è privo di quella bellezza e armonia e perfezione, caratteristica della natura umana e angelica non contaminata dal peccato: vi è in lui una deformazione di tale natura (tradizionalmente il Demonio era considerato l'angelo più bello).
Scrive il Sommo Poeta nel XXXIV canto dell'Inferno ai vv.34-36.

'S'el fu sì ben com'elli è ora brutto,
e contra 'l suo fattore alzò le ciglia,
ben dee da lui procedere ogni lutto”

Le solide mura delle chiese romaniche parlavano all'uomo della storia dell'umanità, del premio e del castigo, permettendogli di comprendere gli infiniti pericoli a cui andava incontro quando si abbandonava agli interessi e ai piaceri terreni.
Il clero utilizzava le immagini come strumento di riflessione e la lotta tra bene e male, tra santità e peccato, si traduceva in immagini, in simboli e allegorie: l'ideale delle arti figurative di epoca romanica era il soprannaturale, ciò che era invisibile ai sensi6 “Per gli uomini del XII secolo soltanto simboli e immagini saranno adeguati a rendere possibile la comunicazione (…) il simbolo si presenta dunque come un segno. E' segno dell'invisibile, dello spirituale"7  inoltre “esiste nell'anima popolare medievale una ricerca del meraviglioso(...)"8 Nello specifico delle caratteristiche che andrà man mano ad assumere, possiamo dire che mentre inizialmente le ali del demonio erano quasi piumate come quelle degli angeli, è solo dal XII secolo che iniziano ad apparire le ali da pipistrello, derivate dai draghi cinesi, che ritroviamo nei rotoli di Li Long Mien, risalenti alla seconda metà dell'XI secolo.

Lucifero, Giotto (Cappella degli Scrovegni, Padova)

Nel XIV secolo gli artisti trassero ispirazione per le loro rappresentazioni del Diavolo dalla figura del Satiro9 cristiani ricorrono così alle fonti classiche, suffragate da commentari teologici (San Girolamo definì i satiri e i fauni simboli del Diavolo, demoni lascivi). Assegnando al Diavolo corna e zoccoli hanno inteso evidenziarne il terrore e la mostruosità. Pan è mezzo uomo e mezzo capro, spesso rappresentato con un grande fallo, aveva le orecchie a punta dei capi e, in genere, la barba folta10: è la forma umana contaminata, degradata a caratteri bestiali.




Inoltre un essere metà uomo e metà bestia ben esemplifica l'ambiguità tipica del Maligno11

Monaco caccia i diavoli dal monastero,
miniatura da salterio, 1330-40 – Londra
San Volfango e il Diavolo, 
di Michael Pacher seconda metà del XV secolo.

“Spinto dall'esigenza di assimilare i demoni alle immagini del paganesimo, il cristianesimo scelse un'iconografia che materializzasse tutta la bruttezza e la perversione del male"12


Il peccato porta infatti sempre a una degradazione della natura umana secondo le tre disposizioni condannate nell'Etica Nicomacheaincontinenza (mancanza di misura), malizia e matta bestialitade, come ricorda Virgilio a Dantenel VII cerchio dell'Inferno.

Non ti rimembra di quelle parole
con le quali la tua Etica pertratta
le disposizion che 'l ciel non vole, 

incontinenza, malizia e la matta
bestialitade? e come incontenenza
men Dio offende e men biasimo accatta?

(Inferno, XI, 79-84)

La fattezze animalesche e bestiali con cui il Diavolo viene rappresentato sono dunque il simbolo, il segno visibile di una natura spirituale corrotta dal peccato, immagine tangibile della bruttezza del peccato stesso, sprone a scegliere la via del Bene, della Virtù e della Bellezza. 





Note:
1. A. M. CRISPINO – F. GIOVANNINI – M. ZATTERIN, Il libro del Diavolo: le origini, la cultura, l'immagine, 1986, p.133
2. G.CRICCO – FRANCESCO P. DI TEODORO, Itinerario nell'arte, vol 1- Dalla Preistoria all'età gotica, 1996, p.193
3. Ivi, p.208-209
4. Enciclopedia dell'arte medievale Treccani (1994), alla voce Diavolo.
5. M.M.DEVY, Il simbolismo medievale, 1998, p. 62
6. Il Basso Medioevo-Il Romanico. Il Gotico, ed. DeAgostini, 1990, p.108
7. M.M.DEVY, Il simbolismo medievale, 1998, p.107
8. Ivi, p.61
9. JAMES HALL, Dizionario dei soggetti e dei simboli nell'arte, di James Hall,1993, alla voce Satana
10. LUTHER LINK, Il Diavolo nell'arte, 2001, p.48
11. A. M. CRISPINO – F. GIOVANNINI – M. ZATTERIN, Il libro del Diavolo: le origini, la cultura, l'immagine, 1986, p. 133
12. A. M. CRISPINO – F. GIOVANNINI – M. ZATTERIN, Il libro del Diavolo: le origini, la cultura, l'immagine, 1986, p.133