mercoledì 18 maggio 2022

Il Toro di Falaride

Falaride, tiranno di Akragas, fu reso protagonista di una serie di storie che risultano poco credibili all'uomo odierno. 

La più nota era quella che riguardava il suo toro di bronzo. Era vuoto al suo interno e dotato di una porta. 



Si narra che Falaride utilizzasse il toro come strumento di punizione: una vittima veniva fatta entrare al suo interno e sotto di esso veniva acceso un fuoco. Un sistema di tubi trasformava il lamenti nel verso dell'animale. 

Per coprire l'odore di carne bruciata venivano inserite anche aromi e spezie. 

Fu ideato da un bronzista, Perillo di Atene, per giustiziare i condannati a morte. 

Si narra che Falaride avesse fatto entrare il fonditore nel toro e una volta al suo interno avesse acceso il fuoco. Una volta tirato fuori, non solo non venne ricompensato per la sua invenzione, ma buttato giù da una rupe. 

Il toro compare anche fra gli scritti che trattano di un successore di Falaride, il tiranno Terone: in essi viene raccontato un finale alternativo dell'inventore Perillo. Si narra infatti che Falaride, sdegnato di fronte ad un simile strumento, avrebbe condannato il suo inventore a morire tramite la sua invenzione. Si dice che fu poi buttato a mare al largo delle coste di Agrigento, con ancora all'interno il corpo di Perillo. 




Lo scrittore greco Luciano di Samosata fa dire a Falaride le seguenti parole riguardo a Perillo e al toro:

"Un mio connazionale, un Perilaus, artista ammirevole ma di indole malvagia, aveva pensato di ottenere i miei favori con l’invenzione di una nuova forma di tortura. Pensava che le torture fossero la mia vera passione. Aprì la parte posteriore dell’animale e descrisse: “Quando hai intenzione di punire qualcuno lo chiudi dentro, applichi questi tubi alle narici del toro e ordini che vi sia acceso un fuoco sotto. L’occupante urlerà e la sua agonia sarà trasformata dai tubi nel più patetico e melodioso dei muggiti. La vostra vittima sarà punita e voi vi godrete la musica" (Luciano di Samosata, Falaride I)

Qualcuno narra che Falaride stesso sia stato vittima del toro, condannato dal tiranno Telemaco, che lo aveva spodestato. 

Che fine ha fatto la singolare scultura? 

Diodoro siculo (19.104.3) nel contesto dello scontro fra Cartaginesi e Siracusani presso Capo Ecnomo (311/310 a.C.) , parla anche di questo toro di bronzo. 

“I Cartaginesi occupavano il capo Ecnomo, che si dice fosse una fortezza di Falaride. Raccontano che lì il tiranno avesse posto il famoso toro di bronzo sotto il quale veniva acceso il fuoco per torturare gli accusati; proprio per la crudeltà adottata contro quelle vittime il luogo venne chiamato Ecnomo” .(Diodoro 19.108.1)

L'eknomia è la condizione al di fuori della legge, potrebbe quindi esservi un riferimento alla mostruosità, di Falaride nel punire le vittime nel toro oppure solo a un emporio preesistente al tiranno, caratterizzato dalla mancanza di applicazione delle leggi comuni.

Prosegue Diodoro dicendo che quasi 260 anni dopo il sacco di Cartagine, Scipione aveva restituito ad Akragas con altri oggetti di cui si erano impossessati i Cartaginesi quando avevano preso Agrigento nel 406 .a.C., anche il suddetto toro. 

Sempre secondo Diodoro Timeo nelle sue Storie avrebbe sostenuto che il toro non fosse mai esistito, ma questa sua affermazione è comunemente intesa dagli studiosi come un'errata interpretazione di un passo polemico di Polibio (Diodoro leggeva probabilmente l'opera di Timeo dalla critica di Polibio). 

Scrive infatti Polibio che “non potendo in nessun modo essere trovato un altro motivo, per il quale codesto toro fu portato a Cartagine, tuttavia Timeo si è messo sia a rovesciare l’opinione comune, sia a smentire le dichiarazioni dei poeti e degli storici, dicendo che il toro di Cartagine non era venuto da Agrigento e che questo non era mai stato nella suddetta città”, ma probabilmente Timeo non negava l'esistenza del toro, ma solo che quello che si trovava a Cartagine non proveniva da Agrigento e che quindi non fosse quello di Falaride. 

Pindaro infatti, scrivendo del pensiero di Timeo senza alcun intento polemico, riferisce che secondo questi alla morte del tiranno Falaride, gli abitanti di Agrigento avrebbero gettato il toro in mare. 


Come ‘l bue cicilian che mugghiò prima
col pianto di colui, e ciò fu dritto, 
che l’avea temperato con sua lima, 
 mugghiava con la voce de l’afflitto, 
 sí che, con tutto che fosse di rame, 
 pur el pareva dal dolor trafitto;
(Dante, Inferno, XXVII 7-12)



Bibliografia: 
Tony Spawforth, Breve storia della Grecia e di Roma
Vania Ghezzi, Ecnomo e il toro di Falaride


venerdì 13 maggio 2022

Il corvo e la morte

 Un tempo, la gente era convinta che quando qualcuno moriva, un corvo portava la sua anima nella terra dei morti. A volte però, accadevano cose talmente orribili, tristi e dolorose che l’anima non poteva riposare. Così a volte, ma solo a volte, il corvo riportava indietro l’anima perché rimettesse le cose a posto”.

E’ una voce fuori campo che dà l’incipit al film il Corvo, uscito il 13 maggio del 1994. Nella pellicola nella “notte del Diavolo” -che precede quella di Halloween, in cui vengono appiccati incendi per tutta la città – una banda di criminali uccide due giovani fidanzati, Eric Draven e Shelly Webster. Un anno dopo un corvo riporta Eric nel mondo dei vivi, per consentirgli di fare giustizia.

L’associazione del corvo col mondo dei morti non è invenzione di James O’Barr, autore del fumetto che ha ispirato il film, ma è più antica.



Gli eventi del lungometraggio si svolgono proprio nel periodo in cui i Celti festeggiavano Samhain, che annunciava la fine dell’estate e l’inizio dell’inverno e del Nuovo Anno: una festa di passaggio, durante la quale si riteneva che cadessero le barriere tra mondo dei vivi e dei morti e gli abitanti dell’oltretomba potessero muoversi liberamente da un mondo all’altro e interferire nei loro affari terreni.

Nella mitologia irlandese è a Samhain che il dio tribale, il Daghda, si accoppia ritualmente con la Morigàn, la dea-corvo .

Presso le popolazioni celtiche il corvo, in quanto animale necroforo, era un emblema ctonio, simbolo di oscurità e morte. Le dee corvo della mitologia irlandese preannunciavano sventure, morte e sconfitta degli eserciti ai quali apparivano.

In uno dei racconti contenuti nel Maginobion gallese – tramandato in manoscritti medievali – i corvi di Riannon sono descritti come benefiche creature dell’oltretomba. Nell’iconografia celtica troviamo molte divinità accompagnate da corvi, come la dea Nantosuelta che viene rappresentata insieme ad un corvo, probabile simbolo dell’aldilà, evidenziando il ruolo della dea come protettrice delle anime nell’oltretomba.

Nell’orfismo troviamo l’animale associato alla morte, ma anche alla rinascita. Così come nell’alchimia era associato al nigredo, la putrefazione, la prima fase della Grande Opera: distruzione che era però premessa necessaria nel percorso di creazione della pietra filosofale.

Il corvo era anche considerato uccello dotato di grande saggezza e virtù profetiche: dall’analisi del volo dei corvi, ad esempio, gli auguri deducevano informazioni per predire gli eventi futuri.

Secondo Plutarco la presenza di questi uccelli avrebbe indicato l’imminente fine di Cicerone.

Il suo gracchiare nel medioevo era considerato presagio di morte.

Arriva a noi dunque da lontano l’associazione dell’uccello dalle nere piume con l’aldilà, con il mondo dei morti.



Articolo originale: https://www.periodicodaily.com/il-corvo-e-la-morte/


giovedì 5 maggio 2022

L'origine della maratona

La maratona è una corsa su 42 km (42.195, per l'esattezza) istituita nel 1896 alle prime Olimpiadi moderne di Atene, su suggerimento di un filologo francese Michel Bréal. 




Il nome deriva da quello di Maratona e la corsa ricorda l'ultima impresa di tale Filippide, che secondo la tradizione era stato capace di percorrere in un solo giorno e mezzo 237 km per portare una richiesta d'aiuto: nel 490 a.C. l'esercito persiano si era accampato proprio a Maratona, per attaccare Atene. Gli Ateniese avevano mandato Filippide a chiedere aiuto a Sparta. 

Quando poi gli Ateniesi ebbero la meglio riuscendo a sconfiggere i Persiani nella battaglia di Maratona, lo stesso Filippide si era precipitato ad Atene per annunciare la vittoria ed evitare che, temendo la sconfitta, la città venisse bruciata.1 

Quaranta km separano Maratona dall'antico stadio di Atene. 

Per ridere un po' 😁




Note

1. La battaglia di Maratona aveva avuto luogo perché Atene aveva fornito, insieme ad un'altra città, supporto militare a una rivolta dei Greci della Turchia contro il dominatore persiano. Tale intervento aggressivo aveva portato ad una risposta persiana verso Atene. 

martedì 3 maggio 2022

Dèi vs Giganti

Pergamo, l'odierna Bergama in Turchia. 

La storia del ritrovamento di una magnifica struttura di epoca ellenistica inizia nella seconda metà dell'Ottocento con dei lavori stradali: l'ingegnere tedesco Humann, incaricato della costruzione di alcune strade dall'allora amministrazione locale, osservando il forte di epoca bizantina si rende conto che i meravigliosi fregi inglobati in esso sembrano appartenere ad un monumento diverso, forse più antico dello stesso forte. 

Dopo ben dieci anni -siamo nel 1878- riesce ad ottenere dei finanziamenti dal museo di Berlino per una campagna di scavo, che dà grandi risultati. 

Per un accordo stipulato col sultano, parte dei frutti di questa campagna vengono portati al museo di Berlino, dove tuttora si trovano. 

Pergamo 

Pergamo sorge su massiccio di andesite, sulla cui sommità si erano stabiliti quelli che sono passati alla storia come gli "Attalidi", dal nome di Attalo I, regnante dal 241 al 197 a.C. 

La città ebbe un eccezionale sviluppo urbanistico ed architettonico. Fu un grande centro culturale (la sua biblioteca fu in grado di rivaleggiare con quella di Alessandria).

Il regno si era formato con la secessione di Filetero e si era reso indipendente dalla Siria di Antioco I nel 263 a.C. sotto Eumene I, ma il titolo di re venne assunto dal successore, Attalo I, che nel 230 sconfisse al fiume Caico i Galati, alleati di Antioco Ierace. 

Il regno riuscì a mantenere a lungo la sua indipendenza dapprima con l'alleanza  dei Lagidi e in seguito con quella con Roma. 

L'altare

Le grandiose lastre marmoree rinvenute nella campagna di scavo tedesca facevano parte in origine di un monumento grandioso, la cui impronta di ben 35 metri quadrati è visibile ancora oggi in situ. Si tratta di un altare monumentale, la cui costruzione ha richiesto circa una generazione per essere eseguita, impiegando decine di scultori (non fu mai completamente portata a termine). 



Il primo fregio: dèi vs giganti

Attorno al podio si estendeva un fregio scolpito, alto più di 2 metri, di donne e uomini impegnati in un combattimento, una gigantomachia che scorre lungo l'alto zoccolo, articolandosi in 120 metri.  

La battaglia rappresentata è l'assalto all'Olimpo da parte dei Giganti, aizzati dalla madre Gea e dai Titani. 

La gigantomachia rappresentata sul nostro altare segue la particolare interpretazione, esiodea, elaborata secondo i canoni del filologo Krates di Mallos, fondatore della biblioteca della città. L'ordine di comparizione degli dèi si basa infatti su una precisa genealogia che risponde ad una precisa scelta filologica. Ad est sono rappresentati gli dèi dell'Olimpo, a nord quelli della notte, a sud quelli del giorno e della luce, ad ovest quelli del mare e Dionysos

Le figure si esaltano con luci e ombre in forte contrasto: il fregio, per essere esposto direttamente alla luce, ha un aggetto notevole. 


I giganti sono rappresentati enormi, con tratti animaleschi. 

Gli assalitori rappresentavano un popolo del nord che minacciò i Greci dell'Egeo per circa un secolo, i Galli, che avevano attaccato una città della Grecia centrale nel 279 a.C. 

Pausania, descrivendo un loro attacco ad una città della Grecia centrale, scrive che tutti gli uomini furono da questi passati a fil di spada e i vecchi massacrati, così come i bambini ancora nelle braccia delle madri e dei più paffuti di questi i Galli avrebbero bevuto il loro sangue e mangiato le loro carni.1

Alla fine è Zeus ad avere la meglio sulla razza primitiva.

Il tema della gigantomachia aveva assunto il significato di lotta di Greci contro Barbari nel corso del V secolo a.C., dove i giganti alludono al nemico persiano. Celebre è la rappresentazione di una gigantomachia con questa chiave di lettura sullo scudo dell'Atena Parthènos, statua collocata nel nàos del Partenone. 

Attalo I e il figlio Eumene II avevano sconfitto i Galli in battaglia, guadagnandosi la gratitudine dei popoli stabilitisi sulla costa occidentale della Turchia. Fu proprio Eumene II a commissionare questo altare. La rappresentazione di questa battaglia era dunque una celebrazione del re di Pergamo. 

L'altare fu dedicato a Zeus Soter, Zeus Salvatore e Athena Nikephoros, portatrice di vittoria ed  era situato in una terrazza quadrangolare, tra il santuario di Athena poliàs e l'agorà superiore della città. 

Al santuario si accedeva attraverso un propylon sul lato orientale, ma la fronte dell'altare era rivolta a ovest, verso la pianura.

Il secondo fregio e la kontinuirliche Darstellungsweise

Addossato alle parenti del recinto si estendeva per 87 metri un secondo fregio su cui erano rappresentate le storie del mitico fondatore di Pergamo, Telephos

Si tratta di un mito molto antico. 

Singolare è la narrazione di momenti diversi, su uno stesso rilievo, delle gesta di un eroe. Siamo qui in presenza di quella che la scuola di Vienna ha definito come "rappresentazione continua -kontinuirliche Darstellungsweise  - ossia quel  modo di comporre, in pittura o scultura, scene animate da figure, rappresentando vari episodi successivi di una medesima "storia" entro lo stesso sfondo e senza suddivisioni mediante cornici o altro. 2

Gli stessi personaggi ritornano in vari episodi rappresentati senza soluzione di continuità.

Un esempio forse più noto di questo tipo di rappresentazione è quello della Colonna Traiana a Roma, in cui sono rappresentati diversi episodi di una campagna militare, quella di Traiano contro i Daci, in cui l'imperatore e altri personaggi ritornano più volte in diversi episodi. 

Questo modo di comporre lo si trova anche nei sarcofagi cristiani del IV secolo. 

Non si tratta dunque di un'invenzione dell'arte romana, ma è già presente nel fregio dell'Eretteo dove la figura del protagonista ritorna più volte in episodi diversi. 

Per dirla tutta, tale tipo di rappresentazione si trova in germe, in casi isolati, non sviluppati in tutta la scena raffigurata, anche in momenti precedenti come nei rilievi della spedizione di Ramesses II contro Qadesh, a Luxor ed Abu Simbel. 

Trovò grande sviluppo in epoca imperiale romana e poi nell'arte medievale europea. 

Note

1.Tagliarono a pezzi tutti i maschi, e similmente i vecchi uccisero, e i bambini sulle mammelle delle loro madri, e dopo avere uccisi quelli di essi, che più pingui erano pel latte, ne bevevano i Galli il sangue e le carni gustavano (Pausania, Periegesi della Grecia, Libro Decimo,22,2 - trad. A.Nibby

2. https://www.treccani.it/enciclopedia/rappresentazione-continua_%28Enciclopedia-dell%27-Arte-Antica%29/

Inventio Crucis

In questo giorno la Chiesa ricorda l'Inventio Crucis, il ritrovamento della croce di Cristo da parte di Elena, madre di Costantino.

La vicenda è conosciuta soprattutto tramite la duecentesca Legenda Aurea del domenicano Jacopo da Varagine (Varazze) e il poema epico Elena dell'angolossassone Cynewolf, risalente al VIII-IX secolo. La Legenda è una collezione di vite di santi, usata probabilmente come manuale di predicazione. In essa vi si trova narrato che Elena avrebbe ritrovato la vera croce dopo aver interrogato un ebreo di nome Giuda, che l'avrebbe condotta al luogo in cui si trovata il Golgota, completamente obliterato dal tempio adrianeo di Aelia Capitolina. Diceva infatti Eusebio di Cesarea che l'imperatore Adriano avesse costruito il tempio in quel sito proprio per occultare il luogo di devozione cristiano sostituendolo con un luogo di culto a Venere, di modo che se un cristiano di fosse recato lì in adorazione sarebbe sembrato che adorassa la dea. Per contro Elena avrebbe fatto radere al suolo il tempio pagano e dallo scavo sarebbero emerse tre croci. Sul come si fosse stabilito quale delle tre croci fosse appartenuta a Cristo e quali ai ladroni ci vengono riportate più versioni:



la prima di esse narra che per dirimere il dubbio Elena avrebbe fatto collocare la croci nel mezzo della città attendendo "che si manifestasse la gloria di Dio" ed si sarebbe manifestata nella resurrezione di un giovane nel momento in cui il feretro passava accanto a quella identificata quindi come la Croce di Gesù. Questa è la versione che si trova in Paolino e Sulpicio Severo.
Un'altra versione -riportata da Rufino, Socrate e Teodoreto- riferisce invece della guarigione di una nobildonna sul punto di morire, nel momento in cui le si sarebbe accostata la croce di Cristo.
Sozomeno riportava entrambe le versioni.
Per Ambrogio invece -nel De obitu Theodosii, l'orazione funebre in onore di Teodosio (395 d.C.), che è anche la prima attestazione della leggenda(anche se sembra basarsi sulla Storia ecclesistica di Gelasio di Cesarea) – riferisce che fu possibile distinguere la Croce di Gesù da quella dei ladroni per via dell'iscrizione che vi aveva fatto affiggere Pilato (il titulus).


Una volta identificata la reliquia, Elena ne avrebbe portato una parte con sé e deposto il resto in alcune teche di argento lasciate sul posto, affidate alla custodia del vescovo di Gerusalemme: la croce veniva esposta soltanto nelle festività religiose più solenni.

Nel diario di viaggio della pellegrina Egeria, che fu nel Vicino Oriente tra il 382 e il 384, ritrovato nel 1884 in una copia manoscritta, viene descritta nei particolari la solenne liturgia di Gerusalemme inaugurata dal vescovo Cirillo.

 

Quando nel 614 l'esercito del re persiano Cosroe II al comando del generale Sarabazo invase la Palestina, abbattendo anche la chiesa del Santo Sepocro, la vera croce venne mandata in dono a Meryem, la regina cristiana di Persia. Recuperata nel 627 grazie alla sconfitta dei persiani a Ninive ad opera dell'imperatore bizantino Eraclio I, la croce fu riportata trionfalmente a Gerusalemme. E qui rimase alla venerazione dei fedeli fino al 1187: la porzione della reliquia di Gerusalemme risulta infatti perduta sul campo di battaglia di Hattin.
Elena ne aveva però portati dei frammenti a Roma, conservati privatamente nel suo palazzo (non ci sono pervenute testimonianze coeve che parlino di celebrazioni liturgiche analoghe a quelle di Gerusalemme descritte da Egeria).
Soltanto dopo la sua morte -avvenuta poco tempo dopo il ritorno dalla Terrasanta- e di Costantino, fu consentito di trasformare in chiesa l'ambiente più spazioso del palazzo.
La reliquia della croce fu ispirazione per opere come Vexilla Regis di Venanzio Fortunato o Il sogno della croce di Cynewolf.