giovedì 9 giugno 2022

9 giugno 68, muore l'imperatore che volle essere il Sole

 “Quale artista muore con me!” avrebbe ripetuto continuamente Nerone mentre preparava la sua morte, poco prima di pugnalarsi alla gola con l’aiuto del fedele Epafrodito, il 9 giugno del 68 d.C.

Dichiarato nemico pubblico dal Senato – e questo dava la facoltà di ucciderlo come fosse un nemico di guerra – fuggì dal suo palazzo e pose così fine alla sua vita, a soli 32 anni.



Nato il 15 dicembre del 37 d.C. ad Anzio, prese il nome di Lucio Domizio Enobarbo Nerone.

Diventato imperatore giovanissimo -non ancora diciassettenne – il 13 ottobre del 54, vide salutare la sua salita al trono con grande entusiasmo da popolo e senatori.

Nerone, che all’esilio della madre era stato affidato alle cure della zia Domizia Lepida, era cresciuto in mezzo agli schiavi, interessandosi di musica, letteratura, teatro, corse di cavalli, poesia. La sua educazione era stata affidata a due liberti greci, Aniceto e Berillo – e poi a Cheremone, un sacerdote egizio che era stato direttore del museo di Alessandria – che certamente furono determinanti nell’indirizzarlo verso quel filo – ellenismo che avrebbe caratterizzato così fortemente la sua politica. I suoi interessi non furono certo convenzionali per un imperatore, così come non lo fu il suo modo di presentarsi: portava infatti i capelli lunghi fino alle spalle secondo una moda ricorrente tra gli aurighi, gli attori, e in genere le persone di basso ceto.

L’immagine che Nerone aveva voluto dare di se stesso era più vicina a quella di un dinasta ellenistico piuttosto che ad un imperatore romano: si era infatti fatto promotore di una monarchia teocratica, arrivando a rappresentare se stesso come il Sole, un dio.

Una manifestazione evidente della volontà di Nerone di presentarsi come un dio si ebbe nel 66 d.C. nelle celebrazioni della sottomissione dell’Armenia, durante le quali il sovrano Tiridate, nel ricevere la corona, si prostrò ai piedi dell’Imperatore riconoscendolo signore del mondo e incarnazione del dio iranico Mitra.

Quel giorno Nerone volle una sua rappresentazione su di un velo di porpora teso al di sopra del teatro di Pompeo come Sole conducente una quadriga in mezzo agli astri dorati.

Non solo in questa occasione si vede un Nerone assimilato al Sole: in un altare, dedicato da uno schiavo che lavorava alla costruzione della Domus Aurea -il sontuoso palazzo che si era fatto edificare a Roma- vi si trova rappresentato l’Imperatore col capo circondato dai raggi solari, così come lo si vedrà addirittura nella monetazione.

Come Sole si fece rappresentare dal greco Zenodoro, in una colossale statua posta nel vestibolo del magnifico palazzo che si era fatto costruire. Proprio nella Domus Aurea (della quale è venuto alla luce di recente un ambiente interamente affrescato, la Sala della Sfinge) il motivo solare era continuamente richiamato.

Nerone aveva voluto un perfetto orientamento est-ovest dell’edificio che si trovava su Colle Oppio, come rappresentazione simbolica del corso apparente del Sole, per ottenere il quale si erano richiesti enormi lavori di sbancamento del colle.




La stessa scelta dei materiali sarebbe stata condizionata dalla simbologia solare che l’Imperatore voleva promuore, con largo impiego di oro e bianco.

La Sala Ottagonale di Colle Oppio è orientata sulla posizione del sole al momento dell’equinozio del 64 d.C.: il cerchio dell’oculos, allineato col polo nord celeste, viene proiettato esattamente sulla parete nord, illuminando il ninfeo. In questo alcuni studiosi avrebbero identificato una corrispondenza con le sale del trono di Parti e Sassanidi.


In proporzioni e lusso il palazzo neroniano pare accostabile solo alle regge dinastiche orientali e ai palazzi di Alessandria d’Egitto.

La Domus Aurea può essere vista come una manifestazione architettonica del suo programma politico-ideologico e realizzazione dell’augurio di Seneca nell’Apokolokythosis, in cui il filosofo celebrò l’avvento dell’imperatore e l’alba di un nuovo secolo d’oro, facendo dire ad Apollo: “Come Lucifero, disperdendo gli astri che si dileguano, o quale Espero sorge al ritorno degli astri, o come il Sole, non appena la rosata Aurora, dissolta l’oscurità, riconduce il giorno, guarda rosseggiante il mondo e primamente slancia il carro fuori dai cancelli. Così appare Cesare, così ormai Roma contemplerà Nerone”.


Lo storico e biografo romano Svetonio conclude così la vicenda di Nerone: “Morì nel suo trentaduesimo anno d’età, nel giorno stesso in cui in passato, aveva fatto uccidere Ottavia; e tanto grande fu la pubblica gioia che il popolo scese in strada con il pileo in testa. Eppure non mancarono le persone che, per lungo tempo, adornarono la sua tomba con fiori dell’estate e con quelli della primavera, e che esposero ai Rostri delle sue statue vestite con la pretesta, e dei suoi editti in cui come se fosse stato ancora vivo, dichiarava che tra poco sarebbe tornato con grave danno per i propri nemici”.

articolo originale: https://www.periodicodaily.com/9-giugno-68-muore-limperatore-che-volle-essere-il-sole/

mercoledì 18 maggio 2022

Il Toro di Falaride

Falaride, tiranno di Akragas, fu reso protagonista di una serie di storie che risultano poco credibili all'uomo odierno. 

La più nota era quella che riguardava il suo toro di bronzo. Era vuoto al suo interno e dotato di una porta. 



Si narra che Falaride utilizzasse il toro come strumento di punizione: una vittima veniva fatta entrare al suo interno e sotto di esso veniva acceso un fuoco. Un sistema di tubi trasformava il lamenti nel verso dell'animale. 

Per coprire l'odore di carne bruciata venivano inserite anche aromi e spezie. 

Fu ideato da un bronzista, Perillo di Atene, per giustiziare i condannati a morte. 

Si narra che Falaride avesse fatto entrare il fonditore nel toro e una volta al suo interno avesse acceso il fuoco. Una volta tirato fuori, non solo non venne ricompensato per la sua invenzione, ma buttato giù da una rupe. 

Il toro compare anche fra gli scritti che trattano di un successore di Falaride, il tiranno Terone: in essi viene raccontato un finale alternativo dell'inventore Perillo. Si narra infatti che Falaride, sdegnato di fronte ad un simile strumento, avrebbe condannato il suo inventore a morire tramite la sua invenzione. Si dice che fu poi buttato a mare al largo delle coste di Agrigento, con ancora all'interno il corpo di Perillo. 




Lo scrittore greco Luciano di Samosata fa dire a Falaride le seguenti parole riguardo a Perillo e al toro:

"Un mio connazionale, un Perilaus, artista ammirevole ma di indole malvagia, aveva pensato di ottenere i miei favori con l’invenzione di una nuova forma di tortura. Pensava che le torture fossero la mia vera passione. Aprì la parte posteriore dell’animale e descrisse: “Quando hai intenzione di punire qualcuno lo chiudi dentro, applichi questi tubi alle narici del toro e ordini che vi sia acceso un fuoco sotto. L’occupante urlerà e la sua agonia sarà trasformata dai tubi nel più patetico e melodioso dei muggiti. La vostra vittima sarà punita e voi vi godrete la musica" (Luciano di Samosata, Falaride I)

Qualcuno narra che Falaride stesso sia stato vittima del toro, condannato dal tiranno Telemaco, che lo aveva spodestato. 

Che fine ha fatto la singolare scultura? 

Diodoro siculo (19.104.3) nel contesto dello scontro fra Cartaginesi e Siracusani presso Capo Ecnomo (311/310 a.C.) , parla anche di questo toro di bronzo. 

“I Cartaginesi occupavano il capo Ecnomo, che si dice fosse una fortezza di Falaride. Raccontano che lì il tiranno avesse posto il famoso toro di bronzo sotto il quale veniva acceso il fuoco per torturare gli accusati; proprio per la crudeltà adottata contro quelle vittime il luogo venne chiamato Ecnomo” .(Diodoro 19.108.1)

L'eknomia è la condizione al di fuori della legge, potrebbe quindi esservi un riferimento alla mostruosità, di Falaride nel punire le vittime nel toro oppure solo a un emporio preesistente al tiranno, caratterizzato dalla mancanza di applicazione delle leggi comuni.

Prosegue Diodoro dicendo che quasi 260 anni dopo il sacco di Cartagine, Scipione aveva restituito ad Akragas con altri oggetti di cui si erano impossessati i Cartaginesi quando avevano preso Agrigento nel 406 .a.C., anche il suddetto toro. 

Sempre secondo Diodoro Timeo nelle sue Storie avrebbe sostenuto che il toro non fosse mai esistito, ma questa sua affermazione è comunemente intesa dagli studiosi come un'errata interpretazione di un passo polemico di Polibio (Diodoro leggeva probabilmente l'opera di Timeo dalla critica di Polibio). 

Scrive infatti Polibio che “non potendo in nessun modo essere trovato un altro motivo, per il quale codesto toro fu portato a Cartagine, tuttavia Timeo si è messo sia a rovesciare l’opinione comune, sia a smentire le dichiarazioni dei poeti e degli storici, dicendo che il toro di Cartagine non era venuto da Agrigento e che questo non era mai stato nella suddetta città”, ma probabilmente Timeo non negava l'esistenza del toro, ma solo che quello che si trovava a Cartagine non proveniva da Agrigento e che quindi non fosse quello di Falaride. 

Pindaro infatti, scrivendo del pensiero di Timeo senza alcun intento polemico, riferisce che secondo questi alla morte del tiranno Falaride, gli abitanti di Agrigento avrebbero gettato il toro in mare. 


Come ‘l bue cicilian che mugghiò prima
col pianto di colui, e ciò fu dritto, 
che l’avea temperato con sua lima, 
 mugghiava con la voce de l’afflitto, 
 sí che, con tutto che fosse di rame, 
 pur el pareva dal dolor trafitto;
(Dante, Inferno, XXVII 7-12)



Bibliografia: 
Tony Spawforth, Breve storia della Grecia e di Roma
Vania Ghezzi, Ecnomo e il toro di Falaride


venerdì 13 maggio 2022

Il corvo e la morte

 Un tempo, la gente era convinta che quando qualcuno moriva, un corvo portava la sua anima nella terra dei morti. A volte però, accadevano cose talmente orribili, tristi e dolorose che l’anima non poteva riposare. Così a volte, ma solo a volte, il corvo riportava indietro l’anima perché rimettesse le cose a posto”.

E’ una voce fuori campo che dà l’incipit al film il Corvo, uscito il 13 maggio del 1994. Nella pellicola nella “notte del Diavolo” -che precede quella di Halloween, in cui vengono appiccati incendi per tutta la città – una banda di criminali uccide due giovani fidanzati, Eric Draven e Shelly Webster. Un anno dopo un corvo riporta Eric nel mondo dei vivi, per consentirgli di fare giustizia.

L’associazione del corvo col mondo dei morti non è invenzione di James O’Barr, autore del fumetto che ha ispirato il film, ma è più antica.



Gli eventi del lungometraggio si svolgono proprio nel periodo in cui i Celti festeggiavano Samhain, che annunciava la fine dell’estate e l’inizio dell’inverno e del Nuovo Anno: una festa di passaggio, durante la quale si riteneva che cadessero le barriere tra mondo dei vivi e dei morti e gli abitanti dell’oltretomba potessero muoversi liberamente da un mondo all’altro e interferire nei loro affari terreni.

Nella mitologia irlandese è a Samhain che il dio tribale, il Daghda, si accoppia ritualmente con la Morigàn, la dea-corvo .

Presso le popolazioni celtiche il corvo, in quanto animale necroforo, era un emblema ctonio, simbolo di oscurità e morte. Le dee corvo della mitologia irlandese preannunciavano sventure, morte e sconfitta degli eserciti ai quali apparivano.

In uno dei racconti contenuti nel Maginobion gallese – tramandato in manoscritti medievali – i corvi di Riannon sono descritti come benefiche creature dell’oltretomba. Nell’iconografia celtica troviamo molte divinità accompagnate da corvi, come la dea Nantosuelta che viene rappresentata insieme ad un corvo, probabile simbolo dell’aldilà, evidenziando il ruolo della dea come protettrice delle anime nell’oltretomba.

Nell’orfismo troviamo l’animale associato alla morte, ma anche alla rinascita. Così come nell’alchimia era associato al nigredo, la putrefazione, la prima fase della Grande Opera: distruzione che era però premessa necessaria nel percorso di creazione della pietra filosofale.

Il corvo era anche considerato uccello dotato di grande saggezza e virtù profetiche: dall’analisi del volo dei corvi, ad esempio, gli auguri deducevano informazioni per predire gli eventi futuri.

Secondo Plutarco la presenza di questi uccelli avrebbe indicato l’imminente fine di Cicerone.

Il suo gracchiare nel medioevo era considerato presagio di morte.

Arriva a noi dunque da lontano l’associazione dell’uccello dalle nere piume con l’aldilà, con il mondo dei morti.



Articolo originale: https://www.periodicodaily.com/il-corvo-e-la-morte/


giovedì 5 maggio 2022

L'origine della maratona

La maratona è una corsa su 42 km (42.195, per l'esattezza) istituita nel 1896 alle prime Olimpiadi moderne di Atene, su suggerimento di un filologo francese Michel Bréal. 




Il nome deriva da quello di Maratona e la corsa ricorda l'ultima impresa di tale Filippide, che secondo la tradizione era stato capace di percorrere in un solo giorno e mezzo 237 km per portare una richiesta d'aiuto: nel 490 a.C. l'esercito persiano si era accampato proprio a Maratona, per attaccare Atene. Gli Ateniese avevano mandato Filippide a chiedere aiuto a Sparta. 

Quando poi gli Ateniesi ebbero la meglio riuscendo a sconfiggere i Persiani nella battaglia di Maratona, lo stesso Filippide si era precipitato ad Atene per annunciare la vittoria ed evitare che, temendo la sconfitta, la città venisse bruciata.1 

Quaranta km separano Maratona dall'antico stadio di Atene. 

Per ridere un po' 😁




Note

1. La battaglia di Maratona aveva avuto luogo perché Atene aveva fornito, insieme ad un'altra città, supporto militare a una rivolta dei Greci della Turchia contro il dominatore persiano. Tale intervento aggressivo aveva portato ad una risposta persiana verso Atene. 

martedì 3 maggio 2022

Dèi vs Giganti

Pergamo, l'odierna Bergama in Turchia. 

La storia del ritrovamento di una magnifica struttura di epoca ellenistica inizia nella seconda metà dell'Ottocento con dei lavori stradali: l'ingegnere tedesco Humann, incaricato della costruzione di alcune strade dall'allora amministrazione locale, osservando il forte di epoca bizantina si rende conto che i meravigliosi fregi inglobati in esso sembrano appartenere ad un monumento diverso, forse più antico dello stesso forte. 

Dopo ben dieci anni -siamo nel 1878- riesce ad ottenere dei finanziamenti dal museo di Berlino per una campagna di scavo, che dà grandi risultati. 

Per un accordo stipulato col sultano, parte dei frutti di questa campagna vengono portati al museo di Berlino, dove tuttora si trovano. 

Pergamo 

Pergamo sorge su massiccio di andesite, sulla cui sommità si erano stabiliti quelli che sono passati alla storia come gli "Attalidi", dal nome di Attalo I, regnante dal 241 al 197 a.C. 

La città ebbe un eccezionale sviluppo urbanistico ed architettonico. Fu un grande centro culturale (la sua biblioteca fu in grado di rivaleggiare con quella di Alessandria).

Il regno si era formato con la secessione di Filetero e si era reso indipendente dalla Siria di Antioco I nel 263 a.C. sotto Eumene I, ma il titolo di re venne assunto dal successore, Attalo I, che nel 230 sconfisse al fiume Caico i Galati, alleati di Antioco Ierace. 

Il regno riuscì a mantenere a lungo la sua indipendenza dapprima con l'alleanza  dei Lagidi e in seguito con quella con Roma. 

L'altare

Le grandiose lastre marmoree rinvenute nella campagna di scavo tedesca facevano parte in origine di un monumento grandioso, la cui impronta di ben 35 metri quadrati è visibile ancora oggi in situ. Si tratta di un altare monumentale, la cui costruzione ha richiesto circa una generazione per essere eseguita, impiegando decine di scultori (non fu mai completamente portata a termine). 



Il primo fregio: dèi vs giganti

Attorno al podio si estendeva un fregio scolpito, alto più di 2 metri, di donne e uomini impegnati in un combattimento, una gigantomachia che scorre lungo l'alto zoccolo, articolandosi in 120 metri.  

La battaglia rappresentata è l'assalto all'Olimpo da parte dei Giganti, aizzati dalla madre Gea e dai Titani. 

La gigantomachia rappresentata sul nostro altare segue la particolare interpretazione, esiodea, elaborata secondo i canoni del filologo Krates di Mallos, fondatore della biblioteca della città. L'ordine di comparizione degli dèi si basa infatti su una precisa genealogia che risponde ad una precisa scelta filologica. Ad est sono rappresentati gli dèi dell'Olimpo, a nord quelli della notte, a sud quelli del giorno e della luce, ad ovest quelli del mare e Dionysos

Le figure si esaltano con luci e ombre in forte contrasto: il fregio, per essere esposto direttamente alla luce, ha un aggetto notevole. 


I giganti sono rappresentati enormi, con tratti animaleschi. 

Gli assalitori rappresentavano un popolo del nord che minacciò i Greci dell'Egeo per circa un secolo, i Galli, che avevano attaccato una città della Grecia centrale nel 279 a.C. 

Pausania, descrivendo un loro attacco ad una città della Grecia centrale, scrive che tutti gli uomini furono da questi passati a fil di spada e i vecchi massacrati, così come i bambini ancora nelle braccia delle madri e dei più paffuti di questi i Galli avrebbero bevuto il loro sangue e mangiato le loro carni.1

Alla fine è Zeus ad avere la meglio sulla razza primitiva.

Il tema della gigantomachia aveva assunto il significato di lotta di Greci contro Barbari nel corso del V secolo a.C., dove i giganti alludono al nemico persiano. Celebre è la rappresentazione di una gigantomachia con questa chiave di lettura sullo scudo dell'Atena Parthènos, statua collocata nel nàos del Partenone. 

Attalo I e il figlio Eumene II avevano sconfitto i Galli in battaglia, guadagnandosi la gratitudine dei popoli stabilitisi sulla costa occidentale della Turchia. Fu proprio Eumene II a commissionare questo altare. La rappresentazione di questa battaglia era dunque una celebrazione del re di Pergamo. 

L'altare fu dedicato a Zeus Soter, Zeus Salvatore e Athena Nikephoros, portatrice di vittoria ed  era situato in una terrazza quadrangolare, tra il santuario di Athena poliàs e l'agorà superiore della città. 

Al santuario si accedeva attraverso un propylon sul lato orientale, ma la fronte dell'altare era rivolta a ovest, verso la pianura.

Il secondo fregio e la kontinuirliche Darstellungsweise

Addossato alle parenti del recinto si estendeva per 87 metri un secondo fregio su cui erano rappresentate le storie del mitico fondatore di Pergamo, Telephos

Si tratta di un mito molto antico. 

Singolare è la narrazione di momenti diversi, su uno stesso rilievo, delle gesta di un eroe. Siamo qui in presenza di quella che la scuola di Vienna ha definito come "rappresentazione continua -kontinuirliche Darstellungsweise  - ossia quel  modo di comporre, in pittura o scultura, scene animate da figure, rappresentando vari episodi successivi di una medesima "storia" entro lo stesso sfondo e senza suddivisioni mediante cornici o altro. 2

Gli stessi personaggi ritornano in vari episodi rappresentati senza soluzione di continuità.

Un esempio forse più noto di questo tipo di rappresentazione è quello della Colonna Traiana a Roma, in cui sono rappresentati diversi episodi di una campagna militare, quella di Traiano contro i Daci, in cui l'imperatore e altri personaggi ritornano più volte in diversi episodi. 

Questo modo di comporre lo si trova anche nei sarcofagi cristiani del IV secolo. 

Non si tratta dunque di un'invenzione dell'arte romana, ma è già presente nel fregio dell'Eretteo dove la figura del protagonista ritorna più volte in episodi diversi. 

Per dirla tutta, tale tipo di rappresentazione si trova in germe, in casi isolati, non sviluppati in tutta la scena raffigurata, anche in momenti precedenti come nei rilievi della spedizione di Ramesses II contro Qadesh, a Luxor ed Abu Simbel. 

Trovò grande sviluppo in epoca imperiale romana e poi nell'arte medievale europea. 

Note

1.Tagliarono a pezzi tutti i maschi, e similmente i vecchi uccisero, e i bambini sulle mammelle delle loro madri, e dopo avere uccisi quelli di essi, che più pingui erano pel latte, ne bevevano i Galli il sangue e le carni gustavano (Pausania, Periegesi della Grecia, Libro Decimo,22,2 - trad. A.Nibby

2. https://www.treccani.it/enciclopedia/rappresentazione-continua_%28Enciclopedia-dell%27-Arte-Antica%29/

Inventio Crucis

In questo giorno la Chiesa ricorda l'Inventio Crucis, il ritrovamento della croce di Cristo da parte di Elena, madre di Costantino.

La vicenda è conosciuta soprattutto tramite la duecentesca Legenda Aurea del domenicano Jacopo da Varagine (Varazze) e il poema epico Elena dell'angolossassone Cynewolf, risalente al VIII-IX secolo. La Legenda è una collezione di vite di santi, usata probabilmente come manuale di predicazione. In essa vi si trova narrato che Elena avrebbe ritrovato la vera croce dopo aver interrogato un ebreo di nome Giuda, che l'avrebbe condotta al luogo in cui si trovata il Golgota, completamente obliterato dal tempio adrianeo di Aelia Capitolina. Diceva infatti Eusebio di Cesarea che l'imperatore Adriano avesse costruito il tempio in quel sito proprio per occultare il luogo di devozione cristiano sostituendolo con un luogo di culto a Venere, di modo che se un cristiano di fosse recato lì in adorazione sarebbe sembrato che adorassa la dea. Per contro Elena avrebbe fatto radere al suolo il tempio pagano e dallo scavo sarebbero emerse tre croci. Sul come si fosse stabilito quale delle tre croci fosse appartenuta a Cristo e quali ai ladroni ci vengono riportate più versioni:



la prima di esse narra che per dirimere il dubbio Elena avrebbe fatto collocare la croci nel mezzo della città attendendo "che si manifestasse la gloria di Dio" ed si sarebbe manifestata nella resurrezione di un giovane nel momento in cui il feretro passava accanto a quella identificata quindi come la Croce di Gesù. Questa è la versione che si trova in Paolino e Sulpicio Severo.
Un'altra versione -riportata da Rufino, Socrate e Teodoreto- riferisce invece della guarigione di una nobildonna sul punto di morire, nel momento in cui le si sarebbe accostata la croce di Cristo.
Sozomeno riportava entrambe le versioni.
Per Ambrogio invece -nel De obitu Theodosii, l'orazione funebre in onore di Teodosio (395 d.C.), che è anche la prima attestazione della leggenda(anche se sembra basarsi sulla Storia ecclesistica di Gelasio di Cesarea) – riferisce che fu possibile distinguere la Croce di Gesù da quella dei ladroni per via dell'iscrizione che vi aveva fatto affiggere Pilato (il titulus).


Una volta identificata la reliquia, Elena ne avrebbe portato una parte con sé e deposto il resto in alcune teche di argento lasciate sul posto, affidate alla custodia del vescovo di Gerusalemme: la croce veniva esposta soltanto nelle festività religiose più solenni.

Nel diario di viaggio della pellegrina Egeria, che fu nel Vicino Oriente tra il 382 e il 384, ritrovato nel 1884 in una copia manoscritta, viene descritta nei particolari la solenne liturgia di Gerusalemme inaugurata dal vescovo Cirillo.

 

Quando nel 614 l'esercito del re persiano Cosroe II al comando del generale Sarabazo invase la Palestina, abbattendo anche la chiesa del Santo Sepocro, la vera croce venne mandata in dono a Meryem, la regina cristiana di Persia. Recuperata nel 627 grazie alla sconfitta dei persiani a Ninive ad opera dell'imperatore bizantino Eraclio I, la croce fu riportata trionfalmente a Gerusalemme. E qui rimase alla venerazione dei fedeli fino al 1187: la porzione della reliquia di Gerusalemme risulta infatti perduta sul campo di battaglia di Hattin.
Elena ne aveva però portati dei frammenti a Roma, conservati privatamente nel suo palazzo (non ci sono pervenute testimonianze coeve che parlino di celebrazioni liturgiche analoghe a quelle di Gerusalemme descritte da Egeria).
Soltanto dopo la sua morte -avvenuta poco tempo dopo il ritorno dalla Terrasanta- e di Costantino, fu consentito di trasformare in chiesa l'ambiente più spazioso del palazzo.
La reliquia della croce fu ispirazione per opere come Vexilla Regis di Venanzio Fortunato o Il sogno della croce di Cynewolf.












giovedì 21 aprile 2022

21 aprile 753 a.C.

Per quale motivo la fondazione di Roma si celebra in questa data?

 21 Aprile 2.772 ab Urbe condita (dalla fondazione dell’Urbe per eccellenza, Roma), così avrebbero detto gli antichi Romani di questo giorno, per noi il 753 a.C.

Sebbene per gli storici moderni a proposito della nascita di Roma si debba parlare piuttosto di “formazione” , il 21 aprile del 753 a.C. continua tradizionalmente ad essere considerata la data della fondazione della Città Eterna.

Si deve infatti immaginare per Roma una nascita dalla fusione di villaggi collinari posti presso un guado di un fiume navigabile, favorito dalla presenza di un’isola, sulla direttrice che collegava Etruria e Campania e, anche sulla pista del commercio del sale che dalla foce non lontana del Tevere conduceva verso l’interno della penisola.



Dunque, perché proprio il 21 Aprile 753 a.C.?

Nell’antichità vi erano numerose tradizioni e opinioni sull’anno di fondazione della Città.

E’ con Marco Terenzio Varrone (116 a.C. -27 a.C.) che si impone la datazione del 753 a.C.

Lo studioso calcolò questa data avendo a disposizione moltissime informazioni cronologiche dagli atti pubblici, dagli elenchi ufficiali delle magistrature, dalla cronologia greca (che si basava sulle Olimpiadi) e, probabilmente, ricorrendo ad aventi astronomici come le eclissi per il periodo anteriore all’invasione gallica del 390 a.C., tempo in cui non si avevano dati altrettanto precisi.

La tradizione riporta infatti diverse eclissi associate a Romolo.

La storia ci ha tramandato di un astrologo, Taruzio di Fermo, amico di Cicerone e dello stesso Varrone, il quale si era cimentato nell’impresa di definire la data esatta della nascita di Romolo (e Remo). Leggiamo in Plutarco (50 d.C. -post 120 d.C.), nella sua Vita di Romolo, che l’astrologo riteneva che così come dalla posizione degli astri al momento della nascita fosse possibile predire il destino di un uomo, così conoscendone la vita si potesse calcolarne la data e l’ora di nascita. Avrebbe così stabilito che Romolo era stato concepito nel primo anno della seconda Olimpiade al 23 del mese che gli Egiziani chiamano Choiac, all’ora terza, quando si eclissò completamente il sole e nacque nel ventunesimo mese Thoth, all’alba; e fondò Roma al 9 del mese di Pharmuthi, fra la seconda e la terza ora del giorno (con la luna in Bilancia, riferisce Cicerone).

Non è chiaro se Taruzio abbia derivato l’oroscopo di Roma per via astrologica o se – come ritiene Cicerone – una volta nota la data di fondazione (partendo quindi proprio dall’anno stabilito dall’amico Varrone) abbia cercato i dati astrologici che meglio si conciliavano con la tradizione.

Il mese egizio di Pharmuti, di cui parla Plutarco, cadeva infatti in aprile nel I secolo a.C. (nel principale calendario egizio, detto vago, il capodanno si anticipava di un giorno ogni quattro anni e di un mese ogni 120 anni).

Proprio il 21 di questo mese si celebrava a Roma un’antichissima festa chiamata Parilia (o Palilia) in onore di Pale, divinità della pastorizia, durante le cui celebrazioni venivano purificati uomini e greggi.

Cicerone scrive appunto che l’astrologo avrebbe fatto risalire la data della fondazione di Roma proprio all’antichissima festa di Pale, ritenendo che Romolo avesse scelto di fondare la città nel giorno in cui aveva luogo questa antica festa.

Con l’imperatore Claudio, nel 47 d.C. viene inserito nel calendario il giorno Natalis Urbis, per commemorare la nascita di Roma al 21 aprile.

E la si celebra ancora oggi.

articolo originale: https://www.periodicodaily.com/21-aprile-753-a-c-natale-di-roma/

lunedì 11 aprile 2022

11 Aprile 1472, Foligno: editio princeps della Divina Commedia

E’ l’11 aprile del 1472 quando vede la luce l’editio princeps – è così chiamata la prima edizione a stampa di un’opera – della Divina Commedia dantesca.

In realtà l’aggettivo “divina” -comparso per la prima volta con Boccaccio, che lo utilizzò per sottolineare l’eccellenza del poema – entrerà a far parte del titolo solo successivamente, con l’edizione curata da Ludovico Dolce, stampata a Venezia nel 1555 da Giovanni Gabriele Giolito de’ Ferrari.

Dante aveva infatti denominato il suo poema solo con “commedia”, come leggiamo nella sua Epistola a Cangrande: “Incipit Comedia Dantis Aligherii, Florentini natione non moribus”, ossia “Inizia la Commedia di Dante Alighieri, fiorentino per nascita, ma non per costumi”.

La denominazione di “commedia” è giustificata dall’adozione di due elementi che, secondo le teorie retoriche medievali, erano costitutivi appunto del genere “comico”, ossia uno stile umile e dismesso – Dante utilizza infatti la lingua volgare – e un triste inizio seguito da un lieto fine. Il poema, che racconta un viaggio nei tre regni ultraterreni, si apre infatti in una selva oscura – rappresentazione del peccato – in cui il Poeta si è perduto, per chiudersi sulla somma luce divina.


Della Commedia non possediamo il documento autografo: i manoscritti giunti sino a noi sono infatti posteriori di circa un decennio alla morte di Dante. La maggior parte dei codici più antichi sono di provenienza toscana, ma non non il più antico, il cosiddetto Landiano 190 della Biblioteca Comunale di Piacenza, risalente al 1336, che fu trascritto a Genova per conto di un giurista pavese, Beccaro de’ Beccari.

L’edizione folignana
La prima edizione a stampa viene realizzata a a Foligno ed è opera del tipografo Giovanni Numeister, in collaborazione con Evangelista Angelini e l’orefice Emiliano di Piermatteo degli Orfini, che si occupa di disegnare le lettere per la stampa, grazie alla sua esperienza da incisore.

Numeister era allievo del più noto Johann Gutenberg ed era giunto a Foligno da Magonza come copista di manoscritti, dopo il sacco del 1462 che aveva costretto ad una diaspora i primi tipografi tedeschi alla ricerca di mecenati di questa nuova arte.

Come modello per il testo viene preso un manoscritto trecentesco, il cosidetto Lolliano 35, conservato nella biblioteca del seminario di Belluno, appartenente ai cosiddetti “Danti del Cento”, un gruppo di codici della Divina Commedia ascrivibili all’officina scrittoria di Francesco di ser Nardo di Barberino, di cui un’antica tradizione narra che grazie a queste copie si sarebbe procurato il denaro per far sposare le figlie (“con cento Danti ch’egli scrisse, maritò non so quante figliole“).

In questa prima stampa troviamo ancora, retaggio della tradizione manoscritta, gli spazi bianchi a inizio di ogni cantica e canto per permettere al rubricatore di disegnare le iniziali.

Nell’edizione folignana vi sono varie ripetizioni e lacune – il Lolliano 35 manca di alcune terzine del Paradiso – e la lingua è ricca di dialettismi di natura umbra.

Attualmente uno dei pochi esemplari completi che si conservano di questa prima edizione a stampa è conservata presso la Biblioteca Angelica di Roma.

Altre edizioni

Un’altra innovazione nell’editoria dantesca è la prima edizione portatiles (“tascabile”) del poema che, superando i limiti imposti dal grande formato, poteva essere consultata ovunque e in qualsiasi momento; fu stampata a Venezia nell’agosto del 1502 da Aldo Manunzio con testo curato da Pietro Bembo. Tale edizione, detta aldina, si basava sull’esemplare della Commedia del Boccaccio.

Questi infatti ci ha tramandato una serie di scritti danteschi che, senza la sua preziosa trascrizione, risulterebbero perduti.

Nonostante la sua ricostruzione critica di tali scritti non fosse proprio impeccabile – Boccaccio operò infatti diverse correzioni dei testi sulla base di codici diversi e del proprio gusto – tale tradizione utilizzata dal Bembo si impose come testo di riferimento per tutte le altre stampe cinquecentesche rispetto alla tradizione dei “Danti del Cento”.

Nel Seicento la Commedia Dantesca non ebbe molto successo, ma un nuovo apprezzamento lo si avrà dal secolo successivo per toccare l’apice nell’Ottocento, con una nuova edizione curata dall’Accademia della Crusca.

Numerose sono anche le traduzioni del poema dantesco: in francese, tedesco, inglese, gaelico, cinese e persino esperanto.

Composta, secondo i critici, tra il 1306 e il 1321, oggi la Divina Commedia è un testo presente in qualsiasi percorso di studi e diffuso in tutto il mondo.

Articolo originale: www.periodicodaily.com/11-aprile-1472-foligno-editio-princeps-della-divina-commedia

sabato 26 febbraio 2022

La prima basilica cristiana

 Propriamente detta del SS.Salvatore e dei Ss.Giovanni Battista ed Evangelista, è la cattedrale di Roma. Stiamo parlando della chiesa di San Giovanni in Laterano.

L'imponente facciata attuale risale al 1732-35 ed è opera del Galilei e le statue che ne coronano la balaustra sono di Cristo, dei Ss. Giovanni Battista ed Evangelista e dei Dottori della Chiesa.
Tale facciata è svuotata in basso dal portico architravato e in alto dalla loggia ad arcate, che è trasposizione dell'invenzione cortonescadi S. Maria in via Lata2.




L'interno basilicale a 5 navate si presenta nel rifacimento del Borromini3, al quale si devono anche le sistemazioni dei più antichi monumenti funebri e le cappelle laterali. 

L'impianto originario di questa famosa basilica non è però seicentesco: si tratta infatti di fondazione costantiniana ed è solo a fine VI che assume l'attuale titolazione (anche per via dell'immagine acheropita del Sacro Volto custodita nella vicina cappella di S. Lorenzo in Palatino).

"E' del tutto probabile(..)che una vera architettura basilicale cristiana sia nata soltanto con Costantino, pur se non si può escludere che qualche edificio precostantiniano possa aver fornito eventuali spunti per lo sviluppo della planimetria e dell'alzato della prima grande basilica del mondo cristiano"4

Già a partire da Leon Battista Alberti, molti eruditi si sono cimentati con il tema dell'origine della basilica cristiana, dando però per scontato che ogni architettura dovesse ispirarsi comunque a precedenti edifici da considerare come modelli di riferimento.

Nella progettazione di un'opera architettonica, infatti, il primo elemento condizionante è la funzione cui l'edificio è destinato. Siamo qui in presenza di spazi con una un uso del tutto nuovo, di un culto del tutto nuovo, quello cristiano. Non saremmo quindi in presenza di una mera imitazione delle basiliche del mondo pagano, ma di un edificio così concepito per perseguire un preciso scopo.
Il luogo di questo culto doveva infatti contenere un numero enorme di persone e in esso doveva svolgersi  una cerimonia che aveva il suo fulcro non al centro, bensì nel polo terminale di una struttura longitudinale. Una tale aula rettangolare absidata ricorda le grandi aree tricilinari in voga in quell'epoca: in effetti essendo proprio un sacro convito che andava celebrandosi nel culto cristiano, ciò avrà suscitato nell'architetto proprio l'immagine delle aule tricilinari.
Il tipo di copertura, con tetto a spiovente, doveva essere inevitabile per un edificio di tal forma: la larghezza massima di una navata non poteva superare di molto i 25 m circa, in coerenza con le massime lunghezze ottenibili per le travi trasversali maggiori anche da alberi di altissimo fusto. Le navate poi dovevano essere in numero dispari, poiché la navata centrale, che era la più larga, doveva emergere rispetto alle altre per dare luce alla zona più importante dell'edificio. Inoltre poiché i fedeli dovevano aver modo di guardare verso il polo presbiteriale, i muri di partizione longitudinale, dovevano essere "permeabili" nella parte bassa e quindi poggiare necessariamente su sostegni più sottili possibili: le colonne dunque erano certo preferibili ai più massicci pilastri tipici delle basiliche civili del mondo romano, che non avevano la necessità di un permeabilità visiva in direzione obliqua. Qui però le colonne con architrave furono poste solo nella navata centrale, dove i muri più alti e quindi più pesanti consigliavano quel tipo di sostegni: nelle navatelle laterali si volle invece tentare un'innovazione che presentava dei vantaggi in quel senso: si preferirono  partizioni a colonne sormontate da arcate in laterizio, che potevano anche permettere una maggiore distanza tra le colonne e quindi una maggiore "trasparenza".


Assonometria ricostruttiva della fase costantiniana, da BRANDENBURG 2004
(in Lezioni di Archeolgia Cristiana)

Francesco Borromini si preoccupò di rilevare, prima della deprecabile distruzione, l'aspetto e la proporzione di un tratto di colonnato originario nella sua proporzione reale, che si arricchiva anche di una sorta di pulvini.
 
Quella della basilica Lateranense risulterebbe dunque essere una soluzione decisamente nuova anche perché, associata con la struttura laterizia, permetteva una maggiore elevazione dei muri sovrastanti e corrispondeva ad un'indiscutibile eleganza della struttura architettonica.

Un altro aspetto piuttosto innovativo della realizzazione lateranense è certo la notevole altezza della navata centrale rispetto alle laterali e ad un'altrettanto insolita parete terminale decisamente emergente nella quale si aprivano finestre ampie e numerose. Le basiliche civili a più navate di età classica sembra avessero infatti una limitatissima emergenza nella parte centrale. 5

Come detto all'inizio l'architettura e decorazioni attuali sono frutto di interventi di secoli (la basilica ha subito numerosi saccheggi e danneggiamenti nel corso della sua storia);

La porta centrale del portico ha i battenti dell'antica Curia Iulia presso il Foro romano, ma trasformati attorno al 1600 con l'aggiunta delle fasce di contorno (possono vedersi stemmi di Alessandro VII) per adattarli alle  nuove dimensioni.



Nello stesso portico troviamo anche un'antica statua di Costantino proviene dalla sue terme sul Quirinale.


A chiudere la navata centrale vi è un sontuoso ciborio gotico del 1367, decorato da affreschi di Barna di Siena.
Sotto il ciborio è conservato l'altare papale, che racchiude l'antico altare ligneo delle celebrazioni dei primi papi.
Nel Quattrocento la decorazione interna è affidata ai due maggiori esponenti dell'arte tardo-gotica, Pisanello e Gentile da Fabriano.
Il transetto è un interessante esempio di manierismo romano del tardo cinquecento.
Il prezioso soffitto ligneo dorato della navata centrale risale alla seconda metà del '500.
Delle metà del Seicento è il già citato intervento del Borromini.
La zona del presbiterio e dell'abside è stata rifatta nella seconda metà dell'800 da Francesco Vespignani, che ha ripetuto, senza alterarlo, lo schema originale dell'abside antica. In seguito a tale rifacimento è stato trasportato e pesantemente restaurato il mosaico che decora la semicalotta absidale, eseguito verso il 1290 da Jacopo Torriti.






Il chiostro è un capolavoro di arte cosmatesca, costruito nel 1215-32 dai Vassalletto6 (le volte degli ambulacri furono costruite posteriormente, insieme alla semirustica sopraelevazione ad arcate del loggiato).

L'innovazione di questa  basilica non è data sola dalla sua forma: all'intromissione progressiva del cristianesimo va riconosciuta in un decisivo mutamento delle polarità urbanistiche: non è più la sola area forense centro propulsivo e vitale della città romana, ma molteplici nuovi poli urbanistici, quelli della Roma cristiana, l'aulico complesso lateranense appunto e i santuari suburbani di Pietro e Paolo. Sono questi, ormai da tempo, i nuovi spazi dell'aggregazione collettiva (nel IX secolo troveremo l'area forense completamente privatizzata), situati non nel centro, ma in zone periferiche (anche per non dare troppo fastidio all'aristocrazia pagana).

Era infatti a sud-est della città, in prossimità delle Mura Aureliane -in particolare appena entrati dalla Porta Asinaria- che il cristianesimo, supportato in modo esplicito dall'evergetismo imperiale, si imponeva con una tangibilità senza precedenti in una macroarea acquisita dal demanio imperiale e che aveva assunto, dall'età severiana, caratteri di accentuata militarizzazione con la presenza dei Castra nova degli equites singulares7, sotto l'egida dell'adiacente palazzo imperiale del Sessorium. 
L'intervento di Costantino è ben documentato nella biografia di papa Silvestro nel Liber Pontificalis; Tale "(..)occupazione di spazi periferici per impianti di notevole importanza si inserisce entro una tendenza che si può ritenere in qualche modo tipica dell'urbanesimo tardoantico, dal carattere policentrico(..)che va a privilegiare appunto spazi urbani perimuranei" 8


S.Maria in via Lata

Sono molti gli elementi trionfali nella basilica, ad indicare l'esplicita protezione dell'imperatore, che aveva elargito grandissime donazioni. La macrodonazione al Laterano può essere vista come il "sigillo" di "protezione"imperiale. 

Note:
1. Pietro da Cortona (1596-1669)
2. L'attuale via del Corso
3. Francesco Borromini (1599-1667)
4. F.Guidobaldi "Architettura paleocristiana" p.366 in Lezioni di Archeologia Cristiana, a cura di Fabrizio Bisconti e Olof Brandt, Città del Vaticano 2014.
5. L'uso delle colonne nasce in Grecia per uso religioso, poi si diffonde nell'architettura pubblica e in seguito anche in case private.
6. Trattasi di una famiglia di marmorari, scultori e architetti romani, attivi nella seconda metà del XII e nel corso del XIII secolo.
7. Avevano combattuto con Massenzio.  Non si trattava di una decisione di solo carattere punitivo, ma dettata anche dal fatto che era ormai pericoloso mantenere una Roma militarizzata (gli imperatori venivano ormai eletti dai militari). Anche i castra praetoria con Costantino sono demilitarizzati.
8. L.Spera "La cristianizzazione di Roma: forme e tempi" in Lezioni di Archeologia Cristiana, a cura di Fabrizio Bisconti e Olof Brandt, Città del Vaticano 2014, p.224


Bibliografia:
F.BISCONTI -O.BRANDT (a cura di), Lezioni di archeologia cristiana, Città del Vaticano, 2014
Guida d'Italia - Roma, Touring Club Italiano, 2015