lunedì 31 dicembre 2018

L'"etrusca disciplina" - Parte III (I libri rituales)


Il nucleo principale dei libri rituales era rivolto all'insieme delle attività del vivere civile. In tali libri vi si contenevano infatti -come ci riporta Festo1 - prescrizioni sui rituali di fondazione di una città, di consacrazione di altari e templi e a tutte le attività civili riguardanti il tempo di guerra e il tempo di pace. 
Così come il cielo, anche l'orbis terrarum veniva articolato secondo un sistema di coordinate astronomiche proiettate sul luogo dove sarebbe sorta la città: la moltiplicazione degli assi orientati determinava così la formazione di suddivisioni rettangolari. 


Fonte:http://www.archeobologna.beniculturali.it/marzabotto/rito_fondazione.htm

La fondazione stessa di Roma, così come ci è stata tramandata, è un'applicazione del rito etrusco: si narra infatti che i gemelli  avessero osservato il volo degli uccelli per decidere chi dei due avrebbe dovuto dare dare il nome alla città. Remo, recatosi sull'Aventino, avrebbe visto per primo sei avvoltoi, ma provenienti da destra, e quindi da parte sfavorevole; Romolo, dal Palatino, avrebbe visto, anche se più tardi, dodici avvoltoi, giunti da sinistra.2
Di rituale etrusco è anche il solco tracciato poi da Romolo, il
pomerium, un'ampia fascia di terra che non doveva essere né coltivata né edificata e che era dedicata alla divinità. 






Non solo la terra, ma la vita stessa era inserita, per gli Etruschi, in una precisa struttura classificatoria. 
"La vita umana si sviluppa entro dodici ebdomadi 3; nel corso di essa si può, con sacrifici e preghiere, differire il destino personale fino all'età di settanta anni; a partire da quel momento non è più possibile ottenere né lecito chiedere ulteriori dilazioni agli dèi. D'altra parte, a partire dall'età di ottantaquattro anni, gli uomini escono dalla loro mente, e per essi non accadono più prodigi".4
La proroga del destino, sia dei singoli, che degli stati, sembra essere una peculiarità della dottrina etrusca. 
In una concezione dove il cosmo è dominato dalla volontà divina, che si manifesta negli eventi straordinari, l'esclusione dai prodigi equivale, di fatto ad un'esclusione dall'ordine dell'universo. 
Chiaramente anche la vita delle città è definita in base ai prodigi manifestatisi nel loro dies natalis, validi per tutta la loro esistenza. 
Anche la vita di interi stati aveva una durata definita, calcolata in periodi variabili di anni, i cosiddetti saecula, che venivano computati in base alla durata della vita degli uomini più longevi in ogni singolo saeculum. Si credeva che per informare gli uomini del passaggio da un saeculum all'altro, gli dèi inviassero un prodigio. Tra questi ostenta saecularia Plutarco ci segnala l'acuto squillo di tromba che si sarebbe udito nell'88 a.C e sarebbe stato interpretato proprio come un segno di passaggio 5 o come il transito di una cometa nel 44 a.C., di cui ci da notizia Servio Mario Onorato 6.






Note:

1.W.M. Lindsay, De verborum significatu quae supersunt cum Pauli epitome, Leipzig 1913
 p. 359 "Rituales nominantur Etruscorum libri, in quibus scriptum est, quo ritu urbes condantur, arae aedesque sacrentur, curiae, tribus et centuriae distribuantur" (http://www.alim.dfll.univr.it)


2. Ennio, Annales, Liber I.
Curantes magna cum cura cumcupientes               80

Regni dant operam simul auspicio augurioque.

**********************************
[Hinc] Remus auspicio se devovet atque secundam

Solus avem servat. at Romulus pulcher in alto

Quaerit Aventino, servat genus altivolantum.                85

Certabant urbem Romam Remoramne vocarent. 

Omnibus cura viris uter esset induperator.

Expectant vel uti, consul cum mittere signum

Volt, omnes avidi spectant ad carceris oras,

Quam mox emittat pictis e faucibus currus:               90

Sic expectabat populus atque ora tenebat
Rebus, utri magni victoria sit data regni.
Interea sol albus recessit in infera noctis.
Exin candida se radiis dedit icta foras lux.
Et simul ex alto longe pulcherruma praepes               95
Laeva volavit avis: simul aureus exoritur sol.
Cedunt de caelo ter quattor corpora sancta
Avium, praepetibus sese pulchrisque locis dant.
Conspicit inde sibi data Romulus esse priora,
Auspicio regni stabilita scamna locumque.

3. Un periodo di sette anni.

4. Censorino, De Die Natali Liber, libro XIV
Etruscis quoque libris fatalibus aetatem hominis duodecim hebdomadibus discribi Varro commemorat; quae dum annos habent quattuor et octoginta, tamen homines aetatem suam ad decies septenos 
 annos posse fatalia deprecando rebus divinis proferre, ab anno autem LXX nec postulari debere nec posse ab deis impetrari; ceterum post annos LXXXIIIIa mente sua homines abire, neque his fieri prodigia. 

5. Plutarco, Silla, 7

6. Servio Mario Onorato, Commentarii in Vergilii Bucolica Libro IX, v.46












(https://archive.org/details/serviigrammatic01thilgoog/page/n138)


Bibliografia:
Etruschi: una nuova immagine, a cura di M.Cristofani, Giunti, 2000

sabato 15 dicembre 2018

Domus Aurea, una villa suburbana nel cuore di Roma

«Finalmente comincerò ad abitare come un uomo!»1


Circolava un epigramma all’epoca di Nerone, segno del malumore popolare per l’alienazione di buona parte del settore urbano sud orientale, che diceva: «Roma diventerà la sua casa: emigrate a Veio, o Quiriti, sempre che questa casa non occupi anche Veio!»2  Le ricerche di C.C Van Essen – e le sue conclusioni sono state generalmente accettate- stabiliscono le misure del complesso a 80 ettari circa,3 andando ad occupare un’area che comprendeva Palatino, Velia,  Esquilino, Oppio e Celio, inglobando il tempio del Divo Claudio trasformato in ninfeo monumentale.  Si trattava di un’area pari al ventisette per cento dell’intera città chiusa entro le mura serviane.

1. Planimetria generale degli edifici e delle strutture attribuibili alla Domus Aurea (in rosso) in E. SEGALA – I. SCIORTINO, Domus Aurea, 1999, pp. 8, 9 


La Domus Aurea non era una residenza unitaria, bensì composta da una serie di nuclei: l’immenso complesso si affacciava sullo stagnum, un bacino artificiale quadrangolare, punto focale dell’intera costruzione, posto nella convalle tra Palatino ed Esquilino e alimentato dall’acquedotto Celimontano (fig. 1). Il fatto che nel totale naufragio dei nomi ci vengono ricordati quelli di Severo e Celere per la parte architettonica e di Fabullo per la parte pittorica, ci indica l’importanza di questa residenza. Anche se c’è chi sostiene che i nomi di costoro siano allusivi alla responsabilità e velocità con cui dovettero essere condotti i lavori: già nel 66 d.C. infatti l’Imperatore si insediava nella sua nuova residenza.
La costruzione della Domus fu una vera e propria operazione di architettura del paesaggio, a causa delle grandiose opere di taglio e contenimento dei colli, come per le pendici sud della Velia e quelle nord del Palatino, tra le quali venne collocato il Vestibolo; o anche per il giardino pensile nell’area nord-ovest del Palatino, che si affacciava sul Foro. I vari edifici del complesso e i dislivelli del terreno dovevano essere raccordati tramite monumentali vie porticate.
Era una città dentro la città, anzi, erano idillici paesaggi agresti con flora e fauna dentro una città, accanto alle più sofisticate architetture.  Il complesso – scrive Svetonio - era così ampio da comprendere portici a tre bracci e uno stagno «che sembrava un mare»4 e poi vigne, pascoli e boschi, in cui animali domestici e selvatici, zone per la caccia, ma anche per l’allevamento.
Tacito e Svetonio ci dicono che conteneva anche gli Horti Lamiani –dell’epoca di Caligola – e gli Horti Maecenatis, parte dell’eredità di Mecenate ad Augusto e quindi di possesso imperiale da alcuni decenni.  Come ci informa Plinio, nel parco era presente anche un tempio, quello della Fortuna Seiani,  interamente costruito in un raro alabastro proveniente dalla Cappadocia, il quale era tanto splendente che Plinio scrive:«grazie alla pietra, anche quando le porte erano chiuse, c’era dentro a esso un chiarore come del giorno».5
La Domus Aurea era un gioco di luci: i pavimenti erano del sontuoso opus sectile, mentre le pareti erano rivestite da ortostati in marmi colorati. La luce invadeva gli ambienti illuminando rivestimenti marmorei e facendo brillare le foglie d’oro sugli affreschi e sugli stucchi.
Inoltre creava giochi e riverberi sull’acqua delle fontane. Svetonio scrive che ogni cosa era ricoperta d’oro e abbellita con gemme e madreperla.6 «La ricchezza delle applicazioni in foglia d’oro e lo sfarzo dei marmi preziosi, dovevano, col favore del sole, rendere la sfavillante aurea dimora degna dell’imperatore, assimilato egli stesso al Sole-Helios».7
Architettonicamente il modello che seguiva la Domus era quello delle ville suburbane del periodo tardo repubblicano e dei primi anni dell’impero, in particolare della villa marittima campana, che era caratterizzata da una distribuzione sparsa degli edifici, inseriti nel paesaggio, con viste panoramiche sul mare attraverso terrazze, portici, giardini.8 E proprio a Baia, nel golfo di Pozzuoli, Nerone possedeva un’altra residenza.
Il medesimo rapporto villa-paesaggio lo si trova proprio nella domus neroniana, che è appunto costruita su alture, collegata alla valle dello stagnum con una serie di terrazzamenti.Severo e Celere portano dunque questa concezione della villa suburbana su una scala grandiosa,  nel cuore della città: la creazione dello stagnum è probabilmente un tentativo di ricreare il paesaggio marino anche all’interno di Roma.
Il mondo romano aveva già acquisito, negli anni delle guerre di conquista, la moda ellenistica dei grandi peristili colonnati, dei regali saloni di rappresentanza e dei lussureggianti giardini esotici, introdotta a partire dalla fine del II secolo a.C. nelle ricche case di città come nelle lussuose ville di campagna, pure del tutto innovativa risultò la concezione d’insieme della Domus Aurea, nelle proporzioni e nel lusso degli ornamenti, per questo accostabile solo alle regge dinastiche orientali e ai palazzi di corte di Alessandria d’Egitto.
La costruzione della Domus Aurea era probabilmente da imputarsi ad una necessità politica, prima che a vanità e passione per il lusso «A Roma giungevano infatti monarchi stranieri, alleati o vassalli, molti dei quali abituati allo stile di vita dei regni ellenistici e orientali. A questi modelli principeschi si ispirava ideologicamente il progetto (…)».10 
Nulla di simile si era visto prima a Roma né mai si vedrà dopo. 
Augusto si era limitato a riunire in modo organico delle case repubblicane e non si spese in ingrandimenti eccessivi ed abbellimenti sfarzosi, dovendo dare di sé quell’immagine di primus inter pares, caposaldo del suo programma politico, una monarchia mascherata da repubblica.  Anche i successivi imperatori si erano accontentati del Palatino. E’ solo con Nerone che il progetto si fa così ampio, portandolo dapprima a collegare i possedimenti imperiali sul Palatino con gli horti Maecenatis sull’Esquilino: questa residenza la chiamò Transitoria, ossia “di passaggio”. La successiva Domus Aurea può essere vista come un suo ulteriore ampliamento ed arricchimento: infatti Svetonio scrive: «Si fece erigere una casa che dal Palatino andava fino all’Esquilino; la chiamò dapprima transitoria e in seguito, quando un incendio la distrusse, la fece ricostruire e la chiamò aurea».11
La parte più cospicua conservataci della Domus Transitoria è costituita dai cosiddetti “bagni di Livia”, un ninfeo la cui intera superficie era rivestita di preziosi marmi colorati, tranne le volte a botte che vennero stuccate, affrescate, dorate e ornate con gemme incastonate di finti lapislazzuli. Impianto e decorazione del complesso presentano una simmetria rigorosa: sono raffigurate scene epiche in un finto cassettonato delle volte in stile classicheggiante. La pavimentazione era in opus sectile.12
Purtroppo le successive radicali ristrutturazione di questa zona non lasciarono molto dell’originario complesso, tanto che sulla sua effettiva articolazione ancora si dibatte.  Nonostante le molte incertezze, appare evidente che il padiglione sull’Oppio, unico dell’antica Domus sopravvissuto in buono stato di conservazione, fosse solo la minima parte di una grande scenografia urbana; edificio salvatosi grazie alla scelta di Traiano di utilizzare le strutture neroniane come sostruzioni delle sue terme.
Sembra che il Palatino costituisse il settore pubblico, dove l’Imperatore svolgeva le sue attività, mentre l’Esquilino era pensato come settore privato.
Gli scavi archeologici hanno rivelato che nella valle tra l’Oppio e il Celio dopo l’incendio e fino alla piena età flavia non vi fa alcuna attività edilizia, indizio plausibilissimo di una destinazione a giardino. Ma l’unione dei giardini di Mecenate al Celio dovette comportare la deviazione di tutti i percorsi che innervavano l’area, in primis la via Labicana, ma anche il prolungamento della Sacra via:13 la Domus Aurea fa propria una parte della città spostando oltre i suoi confini le vecchie strutture viarie. 14
In seguito alla damnatio memoriae cui fu destinato il suo creatore, la “casa dorata” fu spogliata dei suoi marmi e delle sue opere d’arte. Di quella grandiosa opera non sono tornati alla luce che pochi resti: ad eccezione di una parte più consistente -quella su Colle Oppio – non rimangono che labili tracce sugli altri colli.  Sono stati riportati alla luce in corrispondenza della Velia il fronte orientale dell’atrio-vestibolo, in prossimità del Colosso due blocchi edilizi paralleli al lago che si configurano –secondo la ricostruzione di A. Panella – come sostruzioni di terrazze e aree porticate scenograficamente disposte intorno allo specchio d’acqua; sul Palatino sono state rivenute le fondazioni dei portici che accompagnavano la salita verso il Foro e di una terrazza che regolarizzava il primo salto di quota tra valle e collina.15 Sempre su questo colle, sulla terrazza dell’ex Vigna Barberini, è stato rinvenuto un edificio rotondo che si pensa possa essere la coenatio rotunda citata da Svetonio.  Altri due ambienti sono stati rinvenuti sotto la Domus Flavia.
Una progressiva restituzione alla città delle aree occupate dalla Domus Aurea fu attuata a partire da Vespasiano. Gli ambienti che dovevano servire da sostruzioni alle terrazze che collegavano l’atrio allo stagnum vennero rasati e riempiti di macerie per realizzare l’innalzamento del terreno necessario alla realizzazione dell’Anfiteatro Flavio.  Il padiglione dell’Oppio fu utilizzato per la costruzione delle terme di Traiano.  Successivamente Adriano inaugurò il tempio di Venere e Roma, innalzandolo sopra il vestibolo neroniano, che potrebbe averne condizionato la planimetria. 16

Domus Aurea, scoperto un nuovo ambiente - su PeriodicoDaily

Note:
1. SUET.VI, 31
2. Ivi, 39
3.VAN ESSEN 1954, pp. 371 – 398; MOORMAN 1998, p. 345
4. SUET., VI, 31
5. PLIN., XXXVI, 163
6. SUET., VI, 31
7. SCIORTINO 1999 p. 74
8. SEGALA 1999 p. 13
9. E’ caratteristica delle ville tardo repubblicane ed alto imperiali uno stretto ed inscindibile rapporto col paesaggio: per la loro costruzione si scelgono infatti posizioni elevate e gli edifici sono scenograficamente  disposti su terrazze.
10.Guida archeologica di Roma 2007, p.246
11. SUET., VI, 31
12. DE VOS 1995, p. 200
13. VISCOGLIOSI 2011, p. 157
14. C. PANELLA 1995, p. 52
15. C. PANELLA 2011, p. 161
16.SEGALA 1999, pp. 14, 15





Bibliografia
Guida Archeologica di Roma 2007
A. CASSATELLA, Domus Aurea: complesso del Palatino in Lexicon Topographicum Urbis Romae, vol. II, D – G, a cura di Steinby E.M., Roma, 1995, pp. 63 -64 
GAIO SVETONIO TRANQUILLO, De vita duodecim Caesarum 
C.C. VAN ESSEN, La topographie de la Domus Aurea Neronis, 1954, pp. 371-398  
E.M. MOORMAN, “Vivere come un uomo”. L’uso dello spazio nella Domus Aurea in Horti Romani – atti del convegno internazionale, Roma 4 – 6 maggio 1995, a cura di Maddalena Cima ed Eugenio La Rocca, Roma, 1998, pp. 345 – 361 
PLINIO IL VECCHIO, Naturalis Historia 
E. SEGALA, I. SCIORTINO, Domus Aurea, Milano, 1999 
M. DE VOS, Domus Transitoria in Lexicon Topographicum Urbis Romae, vol. II, D – G, a cura di Steinby E.M. , Roma, 1995, pp. 199 – 202 
A. VISCOGLIOSI, La Domus Aurea in Nerone, a cura di Maria Antonietta Tomei e Rossella Rea, 2011, Milano, pp. 156 – 159 
C. PANELLA, La Domus Aurea nella valle del Colosseo e sulle pendici della Velia e del Palatino, in  Nerone, a cura di Maria Antonietta Tomei e Rossella Rea, 2011, Milano, pp. 160 - 169 

giovedì 22 novembre 2018

L'"etrusca disciplina"- Parte II (I libri haruspicini)

Le notizie in nostro possesso riguardo alla tecnica dell'esame delle viscere degli animali sacrificali (haruspicina) sono frammentarie e isolate. 
Sappiamo che anche i Romani praticavano questo rito, ma con una differenza fondamentale rispetto agli Etruschi. I Romani, infatti, ponevano al dio una domanda che poteva avere solo una risposta positiva o negativa: occorreva perciò formulare tale domanda in un modo ben preciso. Per l'aruspice etrusco, invece, sono le viscere stesse che parlano e lì si palesa il messaggio della divinità. Inoltre i Romani osservavano le viscere senza estrarle dal corpo; gli Etruschi distinguevano invece vari tipi di vittime: le hostie consultorie, ossia quelle vittime per mezzo delle quali si esplora la volontà del dio attraverso l'analisi delle viscere e le hostiae animales delle quali era consacrato al dio soltanto lo spirito vitale. Tra gli animali il più importante era certamente la pecora (fegato di Piacenza). In genere venivano esaminati il fegato, il cuore, i polmoni e la milza. 
Sappiamo che la mancanza dell'organo (o la sua scarsa evidenza), o un'incisione in esso, era un segno nefasto, come testimonia l'episodio del presagio di Spurinna1 a Cesare2, mentre dimensioni maggiori del normale rappresentavano al contrario un segno favorevole. 
L'esame avveniva seguendo prescrizioni assai rigide: il ministrante tratteneva l'organo,strappato dal corpo della vittima, nella sinistra e passava ad esaminarlo accuratamente attraverso la palpazione con la destra. Si iniziava con una prospezione generale del colore e dell'aspetto esterno. 

Specchio bronzeo raffigurante Calcante, il leggendario indovino
che seguì i Greci a Troia, rappresentato qui con le ali, come una
sorta di personaggio mitico, mentre esamina il fegato di un ovino
(Vulci, inizi IV a.C.)

Del fegato gli aruspici distinguevano due parti, una detta "familiaris", l'altra "hostilis o inimica": probabilmente la prima era così detta perché riferita all'interrogante, mentre la seconda veniva riferita all'avversario (quindi un segno favorevole nella pars inimica era da considerarsi di cattivo auspicio per il consultante, e viceversa). 
La storia degli studi sul fegato di Piacenza è strettamente intrecciata col tentativo di collegare l'aruspicina etrusca con l'altra scuola epatoscopica, quella babilonese caldea, di cui sono testimonianza decine di modelli di fegato iscritti.





Note:

1.Spurinna era originario dell'Etruria, forse di Tarquinia, dove il nome della sua famiglia era uno dei più importanti. I Romani tenevano in grande considerazione gli Aruspici etruschi, e alcuni importanti politici avevano un indovino personale. In occasioni dei Lupercali del 44 d.C. Cesare sacrificò un toro, che si rivelò essere privo di cuore -forse si era raggrinzito o era finito nella cavità toracica. Poiché si credeva che il cuore fosse la sede del pensiero e della vita, Spurinna mise Cesare in guardia, affermando di temere che non solo i suoi piani, ma la sua stessa vita potessero finire male.

2."A impedirci di dubitare di ciò, una prova decisiva è data da quel che accadde poco prima della morte di Cesare. Quando compi un sacrificio in quel giorno in cui per la prima volta sedette su un seggio dorato e si mostrò in pubblico con una veste purpurea, tra le viscere della vittima, che era un bove ben pasciuto, non si trovò il cuore. Credi dunque che possa esistere un animale dotato di sangue che non abbia il cuore? Dalla stranezza di questo fatto egli ‹non fu› sbigottito, sebbene Spurinna gli dicesse che c'era da temere che egli perdesse il senno e la vita: l'uno e l'altra, infatti, hanno origine dal cuore. Il giorno dopo, in un'altra vittima non si trovò la parte superiore del fegato. Questi segni gli erano mandati dagli dèi immortali. perché prevedesse la propria morte, non perché la evitasse. Dunque, quando nelle viscere non si trovano quelle parti senza le quali l'animale destinato al    sacrificio non avrebbe potuto vivere, bisogna concluderne che le parti mancanti sono scomparse nel momento stesso in cui vien compiuto il sacrificio" (Cicerone, De Divinatione, I,119 -Trad. https://professoressaorru.wordpress.com)

BIBLIOGRAFIA
Etruschi: una nuova immagine, a cura di M.Cristofani, Giunti, 2000
Barry Strauss, La morte di Cesare: l'assassinio più famoso della storia, 2015

domenica 11 novembre 2018

Dal Christus triumphans al Christus patiens

Siamo nel XIII secolo quando nella pittura italiana vengono introdotti nuovi modelli iconografici, in particolare quello del Christus patiens, di origine bizantina, che va a sostituire nelle croci dipinte la rappresentazione del Cristo vincitore della morte.

Crocefisso di Ariberto

Rappresentazioni del Cristo morto le abbiamo anche in precedenza- un esempio è il cosiddetto "Crocefisso di Ariberto", risalente a poco dopo il 1018, in cui Cristo è raffigurato col capo reclinato, al momento della morte (non vi è ancora il segno della lancia) -ma nel XIII secolo tale immagine prende piede, coesistendo dapprima e andando a soppiantare poi la raffigurazione del cosiddetto Christus triumphans, un Cristo vivo, trionfante sulla morte.

Crocefisso di San Damiano (1100)

Il Christus patiens è una versione realistica della crocefissione: gli occhi sono chiusi, il capo è reclinato sulla spalla destra, il volto è contratto per la sofferenza, il sangue sgorga dal costato e il corpo è piegato dal proprio peso. 


Crocefisso di Giunta Pisano

(1250-54)

Il passaggio verso una resa più realistica ed umanizzata del Cristo sulla croce parte da Giunta Pisano (1251): tale rappresentazione verrà poi sviluppata in direzione sempre più drammatica da Cimabue (1280) e da Giotto(1296-1300), arrivando ad una resa assolutamente naturalistica.
A partire dalla fine del Duecento, infatti, la pittura italiana vive una fase di profondo rinnovamento, promosso dall'ambiente romano e da quello fiorentino, in particolare attraverso l'opera di Cimabue, Cavallini e Giotto: il legame che unisce Italia e cultura bizantina inizia a incrinarsi e la pittura diventa ritratto di una realtà tangibile.
Il successo dell'iconografia del Christus patiens in questo periodo è spiegato dalla nuova spiritualità degli ordini mendicanti, che colgono ben presto le possibilità offerte dalla nuova arte figurativa, commissionando croci dipinte, pale d'altare e tavole narranti la storia dei santi fondatori. 
E' nella decorazione della basilica di san Francesco d'Assisi che si incontrano l'attività di Cimabue e di Torriti e si forma il giovane Giotto, autore di una rivoluzione fondata sulla riscoperta della realtà e su un nuovo modo di rappresentare lo spazio e i sentimenti umani. Tale lezione si diffonderà poi in tutta la penisola. 



Crocefisso di Giotto in Santa Maria Novella (Firenze)

Nel "Cristo trionfante" eravamo in presenza di un'immagine frontale, particolari anatomici sommariamente delineati, sfondi dorati: ora il cielo è azzurro, i volti espressivi, luce e ombra danno volume e tridimensionalità ai corpi, in un complesso di forte pathos. 
La catechesi sulla Passione passa dunque attraverso queste immagini di grande impatto emotivo, capaci di suscitare nel fedele commozione e viva partecipazione alle sofferenze del Cristo.







Bibliografia:
Aa.Vv. I luoghi dell'arte: dall'età longobarda al gotico, 2008


domenica 28 ottobre 2018

L'"etrusca disciplina" - Parte I (I libri fulgurales)

Quello che possiamo dire della religione degli antichi etruschi si basa prevalentemente sulla tradizione indiretta di scrittori greci e latini, che ci offre però informazioni spesso incoerenti, succinte e lontane nel tempo. Sappiamo che quella che i romani chiamano "etrusca disciplina"  si fonda su una dottrina rivelata, codificata in raccolte e libri, i cui paradigmi fondamentali che vi si trovano sarebbero stati dettati da Tages, figlio di Genius e nipote di Giove, apparso nell'agro di Tarquinia. In realtà la "scienza" etrusca ha visto una lunga evoluzione e il riferimento a Tagete può dunque rappresentare il momento di codificazione del complesso di osservazioni empiriche effettuate da generazioni di indovini. Si palesa infatti una fase di particolare dinamismo in età ellenistica, sotto l'influsso delle speculazioni filosofiche e scientifiche greche e soprattutto delle dottrine astrologiche, divulgate dai discepoli delle scuole caldee. 
Nel I secolo a.C. gli scritti di disciplina etrusca conobbero conobbero una grande fortuna nell'ambiente degli antiquari romani: Tarquinius Priscus, Nigidius Figulus, Julius Aquila e Aulus Cecina tradussero i libri che avevano codificato la dottrina direttamente dall'etrusco, probabilmente deformandoli dall'ottica romana. E' comunque possibile individuare un nucleo sufficientemente solido di tratti genuini. 
La moderna tradizione degli studi ha ordinato la documentazione entro una struttura tripartita, fondandosi su due passi di Cicerone, che propongono una classificazione della letteratura religiosa degli Etruschi in libri fulgurales, haruspicini, rituales. 

La base ideologica della divinazione si basa sulla concezione in cui l'assetto della realtà è sottoposto a potenze divine, che ne garantiscono l'ordine: nulla di ciò che accade avviene dunque per caso e ogni evento acquista dunque una sua relativa prevedibilità. Per l'indagine, il cosmo può quindi essere suddiviso in settori. 
Scrive Plinio 1  "A tale scopo [per determinare la provenienza della folgore] gli Etruschi divisero il cielo in sedici parti(..) divisero poi ciascuna di queste regioni in quattro settori e dissero di sinistra le otto regioni orientali, di destra quelle occidentali". 
All'interno di questo cielo gli Etruschi individuavano i segni che gli dèi inviavano dalle loro sedi sparse nel cosmo.
Questa suddivisione di sedi divine è documentata anche nel celebre fegato di Piacenza, sul cui orlo, nella faccia concava, si trovano sedici cellette, rappresentazione della volta celeste, entro cui sono incisi nomi divini.





Tale documento materiale è stato rinvenuto da un contadino a Settima di Gossolengo, in provincia di Piacenza, nel 1877. Si tratta di un modello di fegato ovino -misura poco più di 12 centimetri- in bronzo, che poteva avere funzioni didattiche o essere attributo di una statua di aruspice.  

I libri fulgurales 

Un oggetto da cui i sacerdoti etruschi traevano auspici era il fulmine e la dottrina che ne concerne è contenuta nei cosiddetti libri libri fulgurales (dei fulmini). Tali testi non erano attribuiti a Tagete, bensì alla ninfa Vegonia. Seneca, che dipende dal volterrano Aulo Cecina, presenta in questo modo la dottrina dei fulmini etrusca:"La scienza relativa ai fulmini si articola in tre momenti: quello dell'analisi (quomodo exploremus), quello della interpreazione (quomodo interpretemus) e quello della espiazione (quomodo exoreremus). La prima parte spetta alla sistematica, la seconda alla divinazione, la terza alla propiziazione degli dèi". 
Il primo aspetto riguarda l'individuazione della provenienza del fulmine e la sua collocazione in una delle sedici regioni, che determina gli dèi folgoratori.
Le parti del cielo comprese tra nord ed est sono quelle di summa felicitas, al contrario quelle da ovest a nord sono le più infauste. A contare non è però solo la provenienza del fulmine, ma anche la determinazione della regione nella quale la folgore ritorna: secondo le teoria del reditus fulminis il fulmine rimbalza, sempre indietro, o lui medesimo o il suo spiritus e il segno più favorevole è quando scocca dalla prima regione e lì ritorna.
Altra teoria riguardo ai fulmini è quella del loro lancio ad opera degli dèi, detto manubia: nove erano gli dèi folgoratori, ma undici a manubia, poiché Giove poteva lanciare tre saette (per il romani, invece, erano due sole le divinità folgoratrici, Giove e Summano). 
Secondo tale teoria, gli effetti dei fulmini di Giove sono commisurati alla partecipazione o meno di altre divinità alla decisione del lancio. Il primo lancio Giove lo compie da solo ed è portatore di un messaggio favorevole. La seconda manubia, avvenuta dopo la consultazione dei dodici Di Consentes, porta ancora qualche vantaggio, ma non senza nuocere. La terza manubia è distruttiva, scagliata dopo consulto con i misteriosi Di Superiores et Involuti 2.
A Marte e Saturno vengono attribuite manubiae particolari: quelle del primo giungono non dal dio, ma dal pianeta, mentre quelle del secondo erompono dalla terra (e sono perciò detti "infernali"). 
Non solo la provenienza del fulmine permetteva di trarre l'auspicio, ma anche il colore. 
Non tutti i fulmini venivano però considerati divinatori: vi era infatti la distinzione di essi in fatidica (ossia, quelli che vengono dall'alto o dalle stelle), bruta (quelli che non significano nulla), vana (quello il cui significato è svanito). 
Vi era poi un tipo particolare di fulmine, detto regale, che colpisce il foro, il comizio o i principali luoghi di una libera città, preannunciando pericoli di monarchia.

Le fonti ci informano abbastanza dettagliatamente di un rito di purificazione del luogo colpito da un fulmine. Descrive Lucano3  l'aruspice Arrunus mentre si aggira mormorando preghiere e raccogliendo i tizzoni del fulmine, seppellendoli poi con cura in un luogo recintato e dedicato al dio dal quale la folgore è stata lanciata.

      A motivo di tutti questi avvenimenti si decretò di far intervenire, 
      secondo l'antica consuetudine, gli aruspici etruschi. Il più vecchio di 
      essi, Arrunte, che abitava le mura di Lucca deserta, esperto 
      nell'interpretare i movimenti della folgore e le calde vene delle fibre e 
      i presagi degli uccelli erranti nell'aria, ordina per prima cosa di 
      eliminare i parti mostruosi, che la natura, che non seguiva più le sue 
      leggi, aveva generato senza alcun seme, e di bruciare con fiamme funeste 
      gli orrendi prodotti di uteri infecondi. Subito dopo comanda ai cittadini 
      impauriti di fare il giro dell'intera città e ai sacerdoti, cui spettavano 
      i sacrifici, di percorrere il lungo pomèrio agli estremi confini 
      dell'Urbe, purificando le mura con una solenne processione. Tien dietro il 
      gruppo degli assistenti, succinti secondo l'usanza di Gabii, e a capo del 
      gruppo delle Vestali è la sacerdotessa adorna di bende: a lei soltanto è 
      lecito vedere la troiana Minerva; seguono quelli che custodiscono la 
      volontà degli dèi e i segreti responsi e riconducono il simulacro di 
      Cibèle, dopo averlo bagnato nel piccolo Almone, e l'àugure esperto 
      nell'osservare gli uccelli provenienti da sinistra e il settèmviro, che 
      regola i sacri banchetti, e i Tizii sodali e il Salio che reca lieto sul 
      collo gli scudi sacri e il flàmine con la tiara sul nobile capo. E mentre 
      tutti costoro compiono in processione il giro della città, percorrendola 
      tutta quanta, Arrunte raccoglie i fuochi sparsi di un fulmine e li 
      seppellisce con un mesto mormorio e consacra il luogo alla potenza divina.4


Le folgori poi potevano anche essere addirittura evocate in particolari situazioni, come fece Porsenna che evocò un fulmine contro il mostro Volta che andava danneggiando le campagna di Volsinii 5








Note:
1.Plinio, Naturalis historia, II,143
2. Alcuni studiosi moderni li hanno identificati con il Fato.
3. Lucano, De bello civili libri, I, 608
4.Trad. Progetto Ovidio
5. Plinio, Naturalis historia, II,140

Bibliografia:
Etruschi: una nuova immagine, a cura di M.Cristofani, Giunti, 2000
M. Pallottino, Rasenna, Storia e Civiltà degli Etruschi, Libri Scheiwiller, 1986
A. D'Aversa, L'Etruria e gli Etruschi negli autori classici, Paideia, 1995


mercoledì 17 ottobre 2018

La rinascita dell'alchimia in Occidente

Il termine «Alchimia» deriva dall'arabo Kimiya, uno dei nomi del reagente per la trasformazione dei metalli in oro: il lapis philosophorum occidentale.1
Gli alchimisti occidentali fanno generalmente risalire l'origine della loro arte all'antico Egitto.2
Fu poi in un ambiente fecondo e sincretistico come Alessandria che i Greci, appropriatisi delle dottrine ermetiche degli Egiziani, le mescolarono con le filosofie del Pitagorismo, della scuola ionica e successivamente dello Gnosticismo. 3
Noi non siamo in possesso di documenti originali egizi sull'alchimia, che forse andarono perduti nell'incendio che nel 391 distrusse la biblioteca di Alessandria. Conosciamo però l'alchimia tramite opere di filosofi greci, sopravvissute in traduzioni islamiche.
La distruzione della Biblioteca, infatti, segnò la fine del centro culturale greco, spostando il processo dello sviluppo alchemico verso il Vicino Oriente.

Nell'Occidente altomedievale si era persa, o forse era sopravvissuta in frammenti, quella conoscenza specificatamente ermetica propria dell'alchimia, anche se le biblioteche monastiche ebbero una fondamentale funzione nel diffondere le conoscenze contenute negli erbari bizantini e italo-meridionali.4

E' solo con l'XI e il XII  secolo e il risorgere dei traffici mediterranei, la Reconquista e le crociate, l'organizzazione di scuole cattedrali e di Università, che vennero reintrodotte in Occidente  branche della cultura scientifico-filosofica di matrice classica o tardoantica.
Siamo in un secolo in cui mentre l'Occidente esporta materie prime, vede importare dall'Oriente prodotti rari e oggetti di pregio, che giungono da posti come Bisanzio, Damasco, Bagdad. Il portato della cultura araba non si limita però a beni materiali: insieme con le spezie e la seta, i manoscritti recano all'Occidente cristiano la cultura greco-araba.5

Erano nati così  in Italia numerosi centri di traduzione dal greco e dall'arabo, in cui vennero tradotti anche molti testi di argomenti astrologico.
L'arabo, infatti, è prima di tutto un intermediario. Le opere di Aristotele, Euclide, Tolomeo, Ippocrate, Galeno erano stati accolti da biblioteche e scuole musulmane. "Ed eccoli ora, in un periplo di ritorno, approdare alle rive della cristianità occidentale" 6

Due sono le zone principali di contatto che accolgono i manoscritti orientali: l'Italia e più ancora la Spagna.7
E' presso i re normanni di Sicilia prima, Federico II poi, sino a Toledo riconquistata all'Infedele nel 1087, che sono al lavoro i traduttori cristiani, sotto la protezione dell'arcivescovo Raimondo (1125 -1151).

E sono proprio i traduttori i pionieri della rinascita dell'alchimia in Occidente: qui infatti non si conosce più il greco e la lingua scientifica è ormai il latino. Vengono così tradotti originali arabi, versioni arabe di testi greci e originali greci.8
Oltre alla traduzione del Corano, voluta da Pietro il Venerabile di Cluny nel 1141 ed operata da Roberto di Chester, Ermanno il Dalmata, Pietro di Toledo e il saraceno Mohammed, per confutare le tesi del musulmani, i traduttori permisero di colmare le lacune lasciate dall'eredità latina nella cultura occidentale; oltre a  filosofia, matematica, astronomia, medicina, fisica, logica ed etica, anche l'alchimia, trasmettendo ai latini "la ricerca febbrile dell'elisir."9

Si stabilisce convenzionalmente il ritorno dell'alchimia in Occidente  nel 1144: è infatti in questa data che abbiamo la traduzione latina del Liber de compositione alchimiae ad opera di Roberto di Chester. 



Siamo in un'epoca in cui viene meno la distinzione tra arti liberali e servili: l'uomo si afferma come un artigiano che trasforma e crea, cooperatore della creazione con Dio e con la natura.10

Il mondo medievale già ereditava un bagaglio di miti e di riti relativo all'attivazione delle proprietà di talune specie vegetali dal mondo romano e, attraverso questo, indirettamente da quelli greco e orientale. Altre conoscenze relative alle virtù mitiche delle piante provenivano dalla Bibbia; altre ancora dal mondo celtico e germanico, con il quale i missionari cristiano-latini erano venuti in contatto. 
La tradizione esegetica del libro della Genesi forniva da sola materia sui misteri delle piante e delle loro provvidenziali virtù. Tale Libro restava garante di una natura fondamentalmente buona e amica dell'uomo nonché di un potere in origine concesso a questo su quella.11
"Dio, distinguendo la proprietà dei luoghi e dei nomi, ha assegnato alle cose le loro misure adeguate e le loro funzioni, come alle membra di un corpo gigantesco. Neppure in quel momento remoto [la Creazione] vi fu in Dio nulla di confuso, di informe, giacché la materia delle cose, sin dalla sua creazione, è stata formata in specie congruenti", così Arnaldo di Bonneval di Chartres commentava la Genesi.12

Nel XII secolo Marbodo di Rennes scrisse un celebre "lapidario", ossia un trattato sulle proprietà delle pietre, denso di informazioni sulle virtù magico-terapeutiche delle gemme. Sempre in questo secolo Alberto Magno e Vincenzo di Beauvais credevano alla possibilità di trasmutare i metalli più vili in oro, sulla scorta di un testo schiettamente magico quale la Tabula smaragdina:  partendo dalla Materia Prima che non è dotata di alcun attributo e aggiungendo a essa i caratteri del più pregiato fra i metalli.13




!In certi ambienti, come la scuola di Chartres, l'interesse per la filosofia s'accompagnava all'indagine nel campo delle discipline "magiche", intese come più profondi metodi di ricerca delle cose occulte che producono i fenomeni soprannataurali. 
Per i monaci del complesso abbaziale,  la Natura è una potenza perpetuamente creatrice, dalle inesauribili risorse, ma è anche il cosmo, un insieme organizzato e razionale; è la rete delle leggi che con la loro esistenza rendono possibile e necessaria una scienza razionale dell'universo: il mondo non è infatti assurdo e incomprensibile, bensì ordine e armonia.14 Veniva però fatta una distinzione -non sempre chiara – tra magia naturale (si credeva tradizionalmente ai poteri delle pietre) e cerimoniale/rituale, tra magia lecita e illecita. 

Non si trattava soltanto di mantenere o recuperare la salute: si trattava anche di riflettere sull'intima rispondenza tra tutte le cose del creato; sull'armonia che regnava tra i pianeti, gli animali, le piante, i metalli e l'uomo stesso. 

Nel XIII secolo vediamo le nuove scienze, fra cui anche quelle a carattere magico-astrologico, entrare nelle sedi universitarie ed essere promosse da una serie di sovrani come Federico II, Alfonso X di Castiglia: presso le loro corti venivano infatti tradotti e studiati numerosi testi riguardanti discipline magico -cabalistiche e alchemiche.15

La sapienza di autori come Galeno e Olimpiodoro (V secolo) sarebbe tornata all'Occidente a partire dal XIII secolo, con Alberto Magno (e nei molti apocrifi che venivano fatti circolare sotto il suo nome):  figure simboliche, pianeti, metalli, animali e piante, erano posti in parallelo, considerati per gruppi analogici e nei loro rapporti con l'uomo.16

"La Spagna della Reconquista era un crocevia di culture -cristiana, ebraica, araba. Nella seconda metà del Duecento vi operavano grandi personaggi quali Raimondo Lullo (1235 -1325) e Arnaldo da Villanova (1238 -1311), entrambi al pari di Ruggero Bacone animati da una profonda tensione mistica che sfociava nell'interesse per le discipline magico-cabalistiche e alchemiche"17

Chartres è il grande centro scientifico del secolo. Alle arti del trivium (grammatica, retorica, logica) preferiva quelle del quadrivium, ossia aritmetica, geometria, musica, astronomia, spirito alimentato dalla scienza greco-araba. La conformazione del globo, la natura degli elementi, la posizione delle stelle, la natura degli animali, la violenza del vento, la vita delle piante e delle radici. 
"Così sono esaltate e rese popolari talune grandi figure del passato che, cristianizzate, divengono i simboli del sapere. Salomone è il maestro di tutta la scienza orientale ed ebraica, ma anche il grande rappresentante della scienza ermetica sotto il cui nome vien posta l'enciclopedia delle conoscenze magiche, il padrone dei segreti, il detentore dei misteri della scienza"18

Fu proprio nell'ambito della scuola cattedrale di Chartres che si elaborò la dottrina dell'uomo come "microcosmo", che porta a delle rispondenze tra uomo e natura che consentirebbero al primo di intervenire sulla seconda, anche al fine di manipolarla.19

Tra gli esponenti più importanti di questo periodo si può annoverare Raimondo Lullo (1232 -1315)che, nel suo Liber de segretis naturae,  tentò un'interessante giustificazione dell'alchimia in relazione al concetto di libero arbitrio dell'uomo, sostenendo che l'alchimia non potesse essere condannata dalla Chiesa, perché la scelta di bene o male appartiene al libero arbitrio dell'uomo, che è frutto della sua ignoranza, ma l'ignoranza è voluta dalla giustizia di Dio che può volere solo il bene. 

Sappiamo però che, se inizialmente gli studi alchemici furono approfonditi anche da personaggi appartenenti alla sfera ecclesiastica, si arrivò infine ad una condanna dell'alchimia da parte della Chiesa: oltre alla condanna di San Tommaso d'Aquino nella Summa, gli atti capitolari che tra il 1272 e il 1373 proibirono ripetutamente studio e pratica dell'alchimia a Francescani e Domenicani – e ciò ci porta a pensare che fosse assiduamente praticata – è famosa la "Spondet quas non exhibent", in cui si sostiene che o gli alchimisti che sostengono di aver trasmutato vili metalli in oro sono truffatori o lo hanno fatto col concorso della magia (e quindi del Diavolo). 
L'alchimia nel Rinascimento ebbe ancora molta fortuna. 


Tarsia marmorea nel Duomo di Siena (Giovanni di Stefano, 1448)

               
1. Voce "Alchimia" nell'Enciclopedia Treccani online
2. J. LINSDAY, Les origines de l'alchimie dans l'Egypte greco -romaine, Monaco, 1986
3. WIKIPEDIA, alla voce "Alchimia"
4.  M. MONTESANO, Magia, l'eterno fascino dell'occulto -Medioevo Dossier, , p.40
5.  J. LE GOFF, Gli intellettuali nel Medioevo, 1993, p.16
6.  Ibidem
7.  Ibidem
8.  J. LE GOFF, Gli intellettuali nel Medioevo, 1993, p.17-18
9.  J. LE GOFF, Gli intellettuali nel Medioevo, 1993, p. 20
10.  www.ndonio.it
11.  M. MONTESANO, Magia, l'eterno fascino dell'occulto -Medioevo Dossier, p.40
12.  J. LE GOFF, Gli intellettuali nel Medioevo, 1993, p. 54
13.  M. MONTESANO, Magia, l'eterno fascino dell'occulto -Medioevo Dossier, p. 50-51
14.  Ivi, pp.53-54
15.  M.MONTESANO, Magia, l'eterno fascino dell'occulto -Medioevo Dossier, p.52
16.  M. MONTESANO, Magia, l'eterno fascino dell'occulto -Medioevo Dossier, pp. 52, 55 p.40
17.  Ivi pp. 52, 55
18.  J. LE GOFF, Gli intellettuali nel Medioevo, 1993, p.51
19.  M. MONTESANO, Magia, l'eterno fascino dell'occulto -Medioevo Dossier, p. 52

sabato 13 ottobre 2018

Politica d'immagine neroniana

L’immagine che Nerone voleva dare di sé non era disconnessa dal suo programma politico. L'imperatore romano si considerava un artista, un dinasta ellenistico, un Apollo. «Quale artista muore con me!»,1 si sarebbe rammaricato poco prima di morire. E doveva essere vero, se persino Svetonio, che aveva trovato negli archivi imperiali manoscritti con dei versi di Nerone, li giudicò originali. 2 Il ruolo dell’artista, però, mal si accordava con quello di imperatore, essendo il primo un elemento ai margini della società. 

Quelle a cui Nerone dava la sua preferenza non erano la materie consuete per un aristocratico: si interessava infatti non solo di poesia, ma anche di musica e architettura, discipline ritenute indegne di un nobile romano, così come anche pittura e scultura. Significativo era il modo in cui portava i capelli: ondeggianti e lunghi fino alle spalle secondo una moda ricorrente tra gli aurighi, gli attori e, in genere, le persone di basso ceto. 3

Una volta salito al trono, Nerone cercò di realizzare quello che la madre, il prefetto del pretorio Afranio Burro e Seneca avevano cercato di impedirgli prima. Delle arti che amava egli non fu solo spettatore, tanto ad un certo punto arrivò persino ad esibirsi in pubblico, come citaredo e auriga durante gli Iuvenalia (59 d.C.).4 Nel 60 istituì delle feste in stile greco, in seguito chiamate Neronia, che dovevano essere celebrate con cadenza quinquennale. Alla parte artistica del programma, seguendo la tradizione greca, appartenevano recite ed esibizioni musicali; del tutto inusuali per i Romani erano invece le competizioni atletiche, in cui i partecipanti si esibivano nudi. La prima replica dei Neronia era fissata per il 64, ma il momento era inopportuno, a causa dell’incendio; così la celebrazione fu rimandata al 65. I timori di molti senatori si realizzarono, quando Nerone debuttò in prima persona. 

Forse il suo non era però mero esibizionismo, ma faceva parte di un particolare programma politico: guadagnare popolarità tra la plebe di Roma, e probabilmente mostrare al senato la propria libertà di decisione. 5 Non tutti però concordano sul fatto che le iniziative filoelleniche e le sue esibizioni personali perseguissero il fine educativo di rendere familiari elementi della cultura greca che fino ad allora avevano avuto scarsa attenzione a Roma. Ad esempio lo storico J. Malitz ritiene che «difficilmente questo scopo poteva essere raggiunto nei modi egocentrici scelti dall’Imperatore». 6

Nerone non ruppe i canoni solo per via delle sue passioni non convenzionali per un imperatore – e delle conseguenti manifestazioni pubbliche – ma anche per via della sempre maggiore impostazione teocratica data al suo potere. 7 Egli, infatti, cercò di far accettare ai Romani una nuova e molto diversa scala di valori, mirando ad affrancare questi ultimi dai tabù dei loro antenati, con la creazione di un nuovo codice socio –culturale e lo sconvolgimento delle antiche istituzioni. 8 Inizialmente desiderava apparire come un moderato – anche in province come l’Egitto - rifiutando alcune manifestazioni troppo esplicite di divinizzazione, come accettare la dedica di un tempio o di un santuario, ma non ne rifiutò altre come la sua statua portata in processione. 9 In Grecia sarà proclamato sotér ed euergétes. 10 Altri segni di questa adorazione si possono ravvisare nell’iscrizione di Ptolemaia del 60 o nella monetazione alessandrina nel 62/63 in cui Nerone viene definito o sotér tes oikouménes , mentre nelle monete di Kyme e Synaos in Asia minore è definito senza mezzi termini theós

La mistica dell’areté regale ed ellenistica non si limitò al solo Egitto e alle regioni orientali, 11 ma si propagò nelle province settentrionali, come testimonia la colonna di Magonza, 12che dall’iscrizione sappiamo eretta –probabilmente nel 58 – per la guarigione di Nerone.
Questa colonna è stata definita un inno imperiale, in quanto tutte le rappresentazioni con le divinità preferite dall’Imperatore, tutti i simboli più diffusi vi sono riuniti a testimoniare come ormai l’imperatore tenga in sé i destini del mondo. 13 Nel decreto di Akraiphiai per la libertà dei Greci Nerone viene definito o tou pantós kósmou kúrios, nonché Néos Helios. 14 Nerone tenderà sempre maggiormente all’ideale del basiléus ellenistico, adottando anche alcuni elementi della liturgia aulica ellenistica, espressione concreta della dottrina teocratica, e favorendo l’adorazione che gli veniva tributata presentandosi come un dio vivente. 15
Questa svolta in senso autocratico ad un certo punto uscì dai confini provinciali: nel 66, nelle celebrazioni della sottomissione dell’Armenia  16 svoltesi a Roma, Tiridate prende dalle mani di Nerone la corona, prostrandosi a lui come si fa di fronte a un dio, riconoscendolo signore del mondo. Pur rimanendo in alcuni ambiti un moderato –come quando a Roma si voleva erigere un tempio in suo onore – Nerone finì dunque per favorire l’adorazione che gli veniva tributata presentandosi come un dio. 17

La concezione che Nerone aveva di sé e del suo ruolo e questa svolta in senso teocratico si rifletteva nella sua politica d’immagine. E’ del 59 la creazione di un nuovo ritratto con cui rinnovò profondamente l’immagine imperiale, aderendo ai modelli ellenistici. 18 Inoltre l’esordio di Nerone sulla scena come citaredo e attore, nel 65, produsse nuove immagini estranee alle consuete iconografie imperiali. Svetonio infatti riferisce che al ritorno dalla Grecia, potevano vedersi rappresentazioni dell’Imperatore in alcune statue e nella monetazione in veste di citaredo – Apollo 19 (fig.1), quindi di un Nerone divinizzato. Infatti, oltre a riferirsi alla sua vocazione artistica, questo apollineismo avrebbe anche avuto la funzione politica di esaltare la teocrazia solare. 20


           1. Nerone raffigurato come Apollo con la lira. 
              Asse in oricalco, 64/65 d.C. 
              (E. CIZEK, La Roma di Nerone, 1986 – apparato illustrativo) 

Dall'assimiliazione ad Apollo e l'accostamento al Sole il passo era breve: segno di questo mutamento nel tipo ritrattistico è l'adozione della corona radiata, indossata per la prima volta nel 64(fig.2).

2. Aureo raffigurante Nerone in toga stante e radiato 
(M. CADARIO, Nerone e il potere delle immagini, in Nerone, a cura di M. A. TOMEI, R. REA, 2011, p. 183) 


Il ritratto di questo imperatore doveva illustrarne il potere benefico, indicando in Nerone l'artefice di una nuova età dell'oro. La scelta della corona radiata, un indubbio attributo solare che caratterizzava però anche l'immagine ufficiale del Divo Augusto, doveva puntare in effetti molto sull'ambiguità di un simbolo che era ormai considerato anche un attributo del princeps divinizzato. 21

Più del nuovo Apollo, Nerone sarebbe dunque innanzitutto il nuovo Sole, risplendente sul mondo romano ed ellenistico: in altre parole saremmo in presenza di "un'eliolatria" all'egiziana. 22
A questo allude Seneca quando scrive:"Una gran luce è rivolta in te e tutti gli sguardi sono rivolti verso di essa. Tu credi di uscire? In realtà sorgi!". 23L'identificazione col sole nascente la attinge dagli Egizi, che così designavano i loro faraoni. 24
Un altro segno dell'identificazione Nerone-Sole è dato dall'altare di Eumolpo, uno schiavo che lavorava per la Domus Aurea(fig.3)

  

                          3. Altare di Eumolpo (M. CADARIO, 
                          Nerone e il potere delle immagini, in Nerone, 
                          a cura di M. A. TOMEI, R. REA,2011, p. 183


Si tratta di un altare privato al cui centro l'immagine radiata del Sole è però caratterizzata dal volto di Nerone e dal costume di auriga. 25

Ed è poprio nella Domus Aurea che si offre una rappresentazione monumentale di questa concezione, nel colosso raffigurante il Sole inserito nel vestibolo. 

"La concezione d'insieme [della Domus Aurea], che aveva la pretese di riunire le diverse facce dell'universo in un microcosmo interamente dominato, è espressione della megalomania di Nerone e di una mistica solare probabilmente ereditata dall'Egitto. Ma non va dimenticato che questo rientrava nella logica dell'evoluzione politica ed ideologica dell'Impero. L'originalità di Nerone è di aver realizzato a Roma ciò che Adriano (con una prospettiva più "culturale" che "cosmologica") avrebbe realizzato fuori dalla città con la sua villa di Tivoli. 26 

In conclusione: Nerone vedeva se stesso come un innovatore, un instauratore di una nuova età dell'oro, colui che educa il rozzo popolo romano al gusto greco, un dinasta ellenistico, colui che merita di essere assimilato ad un dio. E l'abitazione di un simile personaggio, che si ritiene eccezionale, non può che essere eccezionale anch'essa: la Domus Aurea, con terreno annesso, si estendeva a occupare gran parte della città: mai, né prima, né dopo, un sovrano riuscì ad avere un così grande spazio all'interno della Capitale. 


Note:
1. GAIO SVETONIO TRANQUILLO, De vita duodecim Caesarum , VI, 49
2. Ivi, 52
3.   M. FINI, Nerone –duemila anni di calunnie, 2009, p. 21
4. Fino alla morte di Agrippina l’arte di Nerone era rimasta un diletto privato.
5. J. MALITZ, Nerone, Bologna 2003 , p. 48
6. Ivi, p. 49
7.  Augusto non si fece tributare onori divini, ma divinizzando il padre Cesare, veniva ad essere, di fatto, figlio di un dio, quindi un dio egli stesso. Caligola invece li accettò volentieri, avendo cominciato ad attribuirsi la maestà divina. Claudio, suo successore, mise fine al tentativo di orientalizzazione dell’Impero, proponendo un ritorno al tradizionalismo augusteo. 
8.   E. CIZEK, La Roma di Nerone, Milano, 1986 , p. 76
9. Ibidem
10. OGIS (Orientis Graeci Inscripriones Selectae), 668
11. Il particolare legame che Nerone aveva con l’Egitto è dovuto anche al suo rapporto con Cherèmone, lo stoico egiziano che gli aveva fatto da precettore, ma anche con Seneca che lì aveva soggiornato a lungo.
12. In alto sulla colonna sta Giove, sulla base, nei bassorilievi, sfilano Apollo, Ercole, ancora Giove, Vulcano – forse a significare di aver domato l’incendio di Roma – Marte e Nettuno –simboli della vittorie per terra e per mare – Minerva e Mercurio - simboli degli incrementi dati alle scienze, ai traffici, la Fortuna, la Felicitas, la Salus etc (MOMIGLIANO 1992, p. 384)
13. A. MOMIGLIANO, Nono contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico,  a cura di Riccardo di Donato, Roma, 1992 , p. 384
14.   O. MONTEVECCHI, Scripta Selecta, a cura di Sergio Daris, Milano, 1998,p. 128
15. CIZEK 1986, p. 76, 77
16. L’Armenia era collocata tra l’Impero romano e il regno dei Parti ed era quindi particolarmente importante nello sviluppo dei rapporti tra di due stati. Poco dopo la morte di Claudio l’Armenia fu conquistata da Tiridate, fratello di Vologese, re dei Parti. Dopo varie vicessitudini, volendo evitare un conflitto, Tiridate si disse disposto a deporre il proprio diadema davanti ad una statua di Nerone e a dichiarare che lo avrebbe cinto di nuovo soltanto a Roma, ricevendolo dalla mani dell’Imperatore.
17.  CIZEK 1986, P. 77 – 79 L’associazione Nerone – Apollo non era una novità di quegli anni: l’immagine di un Nerone Alter –Apollo si era imposta fin dai primi mesi del suo regno. 
18.  M. CADARIO, Nerone e il potere delle immagini, in Nerone, a cura di Maria Antonietta Tomei e Rossella Rea, 2011, p. 182
19. SUET., VI, 25
20. CADARIO 2011, p. 183
21. CADARIO 2011, p.185
22. CIZEK 1986, p. 79
23.  SENECA, De Clementia  I, 8, 4
24.  CIZEK 1986, p. 79
25. CADARIO 2011, p. 185 L’immagine rimanda alla raffigurazione di Nerone auriga solare mostrata al popolo il giorno della cerimonia dell’incoronazione di Tiridate.
26.  P. GROS - M. TORELLI,  Storia dell’urbanistica - il mondo romano, Bari, 2007, p.216