domenica 24 marzo 2024

La crocefissione, un supplizio infamante

Servile supplicium, un supplizio terribile ed infamante riservato inizialmente ai soli schiavi, così era detta la crocefissione.

La caratterizzazione della croce come servile supplicium trova conferma nelle fonti più disparate. Dal De Bello Hispanico sappiamo che Cesare in Spagna fece crocifiggere tre schiavi. Da Giuseppe Flavio sappiamo di una donna sottoposta al terribile supplizio nonostante il suo sesso, presumibilmente perché ex schiava. Sappiamo di quel padrone che, avendo incaricato uno schiavo di servire a tavola, lo fa crocifiggere perché ha mangiucchiato un avanzo di pesce o bevuto un sorso di salsa ancora tiepida. Celebre è la rivolta degli schiavi guidata da Spartaco, che vide 6000 schiavi catturati da Crasso e crocefissi sulla strada tra Capua e Roma.

La croce entra a far parte del panorama dei supplizi di Stato solo a partire dall'età imperiale, quando il supplizio una volta servile venne riservato anche agli uomini liberi, seppur -tranne rari casi- di condizione sociale inferiore (humiliores).

La morte sulla croce di un uomo libero, quando eccezionalmente veniva stabilita, era un fatto che provocava nei romani sconcerto e sgomento.


Le diverse forme della croce

Questo strumento di morte poteva essere costruito in vari modi, ma era sempre composta di due legni separati che venivano uniti, assumendo la forma di croce, solo nel momento finale dell'esecuzione.

La parte verticale -lo stipes – era un palo di legno infisso nella terra abitualmente -anche se non necessariamente - in modo permanente. 

Il patibulum era una trave separata e autonoma, che giungeva sul luogo del supplizio insieme al condannato, caricata sulle sue spalle e avvinta ai polsi con delle corde.



A quel punto il patibulum veniva  congiunto allo stipes


A volte nel patibulum veniva predisposto un incavo destinato ad essere poggiato in un risalto del termine dello stipes, così che la croce che ne risultava, detta crux commissa, aveva forma di T. 

  crux commissa


Altre volte, invece, l'incavo veniva predisposto nello stipes, così che la parte terminale di questa, superando il punto di congiunzione con il patibulum, formava una croce a quattro braccia, detta crux immissa o capitata.

crux immissa


Di regola gli stipites erano poco più alti di un uomo, di modo che i piedi del condannato si venivano a trovare a pochi centimetri dal suolo, esponendolo ai morsi dei cani famelici, attratti dall'odore del sangue, i quali ne straziavano le carni (oltre alle beccate degli avvoltoi).

La croce che andava a formarsi in questo caso era detta humiles.


Condannati al pubblico ludibrio

Quella su cui era stato crocefisso Cristo si trattava di un altro tipo di croce, la cui tipologia dava maggior deterrente all'esecuzione: in essa gli stipites (detti in questo caso sublimes) erano talmente alti che il condannato, con i piedi a circa un metro da terra, veniva visto agonizzare sia da coloro che stavano ai piedi della croce, sia da coloro che se ne stavano lontano. Inoltre i condannati venivano appesi alla croce completamente nudi. 

Gesù era legato a una croce così alta che quando, ormai morente, disse "Ho sete", il soldato che bagnò le sue labbra con la posca1 che le guardie avevano con sé, fu costretto a farlo con una spugna fissata in cima a una canna.





Inchiodati al legno


Sappiamo che il condannato veniva appeso alla croce con dei chiodi, ci danno testimonianza di questo autori come Plauto che nella Mostellaria scrive che lo schiavo Tranione promette un talento a chi riuscirà a scendere dalla croce, "ma a condizione che le sue mani e i suoi piedi siano inchiodati due volte" o di Seneca che paragona i desideri (cupiditates) a delle "croci, alle quali ciascuno di noi si inchioda con le sue mani", ma anche un'iscrizione dei primi anni del principato, pubblicata nel 1967, contenente alcune regole sui possibili modi di mettere in croce gli schiavi delinquenti, qui alle righe 11-14 troviamo riportati gli strumenti materiali all'esecuzione: croce, chiodi, pece e torce. 

Anche se l'iconografia del Cristo lo mostra nel terribile supplizio con i chiodi piantati nel mezzo del metacarpo, sappiamo che questi non venivano infissi nella mano, come peraltro si vede anche dalla Sindone.


Un chirurgo dell'ospedale St. Joseph di Parigi, Pierre Barbet coi suoi esperimenti degli anni 30 su cadaveri ha mostrato di come le braccia dovessero essere inchiodate al patibulum con il chiodo infisso nel mezzo del carpo, tra quattro ossicini(semilunarepiramidalecapitatouncinato), in quanto le mani non reggevano il peso del corpo, ma si laceravano trascinando con sé il cadavere nella caduta. 



Secondo il dott. Barbet il chiodo, inserito in questo "spazio di Destot", veniva saldamente bloccato dalle ossa circostanti, nonché dal legamento anulare anteriore, e costituiva un punto d'appoggio solidissimo. 




Negli anni 90 il patologo e antropologo forense americano Frederick Zugibe, autore di altri esperimenti, individuò un altro punto dove avrebbero potuto essere conficcati i chiodi:  per Zugibe la parte più alta del palmo sarebbe stata in grado di sostenere il peso del corpo senza forature ossee, con uscita dal retro del polso come si vede dalla Sindone. 

La causa della morte

Fissate al patibulum con i chiodi, le braccia sollevate sopportano tutto il peso del corpo, ed esercitano una considerevole trazione che blocca i movimenti del torace e del diaframma. Sentendosi soffocare, per poter respirare un po' meglio, il crocifisso appoggia il corpo sul chiodo dei piedi, e, soltanto in questo modo, può permettersi una certa respirazione. Ma, ben presto, sfinito, ricade.

Così sospeso sulla croce, il condannato andava incontro ad una morte atroce: la vita poteva finire per asfissia, infarto, acidosi, embolia polmonare, shock ipovolemico. 

In un articolo dal titolo L'esame medico di quell'uomo primo martire 2, il Dott. Nicola Partipilo, ascrive la morte di Gesù a una serie di cause: 

"C’è la lenta asfissia determinata dall’iperdistensione del torace e dunque l’insufficienza respiratoria. C’è l’accumulo di sangue negli arti inferiori (a causa della posizione appesa) e quindi l’ipovolemia, perdita di volume del sangue, e lo shock ipovolemico, che conduce alla sincope con arresto cardiaco. Di qui lo scompenso cardio-respiratorio, di qui l’asistolia cardiaca: la quantità di sangue che giunge al cuore è talmente insufficiente da provocare un infarto miocardico. "



Tranne i casi in cui la morte veniva accelerata 3, l'atroce supplizio era concepito per durare ore o giorni, a seconda delle condizioni precedenti e della robustezza fisica del condannato. I Vangeli ci raccontano che Gesù muore dopo alcune ore, stremato dalle percosse, dalla flagellazione, dalla coronazione di spine che lo avevano indebolito in modo estremo. 








Note: 
1. Mistura di acqua e aceto
2. Per motivi d'ordine pubblico, per interventi d'amici del condannato, per usanze locali. Si provocava la morte in due modi: col colpo di lancia al cuore o col crurifragium, cioè la rottura delle gambe, che privava il condannato d'ogni punto d'appoggio con conseguente soffocamento.
3.  Pubblicato sulla rivista Vivere (marzo-aprile 2015)



domenica 10 marzo 2024

La condanna a morte di Gesù. Il processo politico

 I Vangeli raccontano che Gesù viene arrestato mentre si trova nel Gethsemani e condotto al sinedrio , presso il quale viene sottoposto ad un vero e proprio processo, il cui verdetto è la condanna a morte. Siamo però in un epoca in cui il sinedrio non ha più la (piena) competenza giudiziaria sui delitti capitali. Occorre quindi rivolgersi alle autorità competenti, che all'epoca erano i Romani, in particolare la provincia di Giudea era governata da tale Ponzio Pilato, il quale ha governato la provincia dal 26 al 36 o 37.

Quella di Giudea era una provincia1affidata a cavalieri nominati dall'imperatore ed esercitanti il comando militare e la giurisdizione.   

Una piccola parentesi sulla figura di Ponzio Pilato: non vi era nessuna testimonianza materiale di quello che Tacito definisce come “procurator”, fino a che pochi decenni fa, nel 1961, non venne ritrovata ritrovata, dall'equipe italiana dell'Istituto Lombardo di Scienze e Lettere di Milano, una lapide, riutilizzata in cima ad una rampa di scalini nel teatro di Cesarea Marittima riportante un'iscrizione che nomina proprio Ponzio Pilato, con una dedica all'imperatore Tiberio.





«[...]S TIBERIÉUM
[....PO]NTIUS PILATUS
[...PRAEF]ECTUS IUDA[EA]E
[..FECIT D]E[DICAVIT]»



Qui a Pilato viene attribuito il titolo di "praefectus", diversamente da quanto riportato da Tacito. Come spiegare questa discrepanza?

Le due denominazioni con le quali sono conosciuti (presumibilmente in successione) i loro “governatori” di provincia sono quelle di praefectus e procurator. L'ipotesi più probabile è che l'originario titolo di praefectus, presente in età augustea e tiberiana, sia stato sostituito, per lo più, da quello di procurator a partire dell'età di Claudio, fermo restando che le nostre fonti possono anacronisticamente riferirsi a un cavaliere governatore di provincia definendolo “procuratore”, laddove si tratta in realtà di “prefetto”. Sarebbe questo il caso di Ponzio Pilato in Giuseppe Flavio e in Tacito, il cui titolo ufficiale doveva essere quello di prefetto, come ha definitivamente dimostrato la testimonianza epigrafica di Cesarea Marittima.

Il procedimento giudiziario

Tornando al processo, quelli in cui si svolgono i fatti sono i giorni della Pasqua ebraica, periodo in cui c'è grande movimento e Pilato, che abitualmente risiede a Cesarea Marittima, si trova a Gerusalemme, cuore della fede ebraica in quanto sede del Tempio. In particolare Pilato soggiornava nel palazzo di Erode, e qui è il pretorio, dove avviene il nostro procedimento giudiziario.

Ovviamente i membri del sinedrio non potevano far condannare a morte Gesù per il motivo effettivo (blasfemia), quella era una questione religiosa, occorreva quindi un pretesto da presentare al prefetto di Roma: ecco così che la motivazione religiosa diventa una motivazione politica.

La figura del Messia era quella di un discendente della famiglia di Davide che avrebbe restaurato il regno di Israele, cacciando l'invasore romano. Pilato non avrebbe potuto non prendere seriamente un'accusa di questo genere: Gesù aveva la pretesa di essere re, il re dei Giudei.

Noi non abbiamo gli atti del processo, ma i resoconti dei vangeli si rivelano di una notevole attendibilità storica: l'accusa, che Luca ci palesa e che negli altri Vangeli si deduce dalle domande che questi pone all'imputato durante l'interrogatorio, è quella di essersi dichiarato re dei Giudei: “Tu sei il re dei Giudei”? , chiede infatti Pilato. I Vangeli ci dicono che Gesù risponde sì di essere re, ma che il suo regno non è di questo mondo. Insomma, non mostrava certo avere di mira di strappare la Giudea ai romani...

Qualcuno si è chiesto se quello di Gesù si sia trattato di un vero e proprio procedimento giudiziario: secondo lo storico F. Millar non ci sarebbe stato un vero procedimento, non ci sarebbe stata né accusa né difesa, nessuna opinione chiesta al consilium del governatore. Bisogna però tenere conto che il racconto evangelico non ci consente una ricostruzione precisa del processo nei termini rigorosi del diritto dell'epoca, in quanto ad essere importante è il contenuto di fede degli avvenimenti, non il resoconto storico. Si intravedono però in tali racconti, pur nel loro carattere kerygmatico, elementi che permettono di riconoscervi una vera e propria azione giudiziaria, come il riferimento al βῆμα (Gv. 19,13, Mt. 27,19), cioè al seggio del tribunale, su cui siede il prefetto per emanare la condanna a morte; inoltre vi è anche l'accusa da parte dei sinedriti e l'interrogatorio. 

Pilato infatti non si limita alla ratifica o alla delibazione della condanna del sinedrio, ma procede all'interrogatorio personale dell'imputato per giungere alla formulazione di una propria sentenza. Conduce quindi un vero e proprio processo, della durata di varie ore, nel quale verifica personalmente l'attendibilità dell'accusa dei Giudei.


Per quanto riguarda il ricorso al consilium, bisogna dire che il caso presentato non aveva caratteri di rilevanza e difficoltà tali da richiedere il ricorso a pareri terzi. Nel processo penale romano, a differenza di quello giudaico, il giudice ha infatti carattere monocratico, non collegiale (cognitio extra ordinem).

Se questo non  bastasse, l'apposizione dell'iscrizione sulla croce col motivo della condanna, sarebbe sufficiente a provare l'esistenza di un verdetto formale.

Del resto Pilato non si sarebbe piegato a far semplicemente da esecutore di una condanna emanata dal sinedrio (peraltro Pilato non si mostra affatto convinto del fatto che Gesù sia colpevole dell'accusa).

Il volere della folla

Il comportamento di Pilato che dapprima stabilisce che non trova alcun motivo di condanna nell'uomo che sta giudicando e che alla fine si piega al volere della folla, va visto nel contesto politico del governo romano della Giudea, contesto estremamente difficile e tormentato.

Di Pilato ci raccontano due autori ebrei, Filone Alessandrino e Giuseppe Flavio, che ce lo presentano in maniera così negativa e in frequente conflitto con i sudditi giudei, ma non deve essere stato un pessimo governatore, se ha potuto reggere la provincia per dieci anni. Se avesse governato così male difficilmente l'imperatore ve lo avrebbe lasciato. 

I vangeli ci raccontano che mentre Pilato cercava di rimettere in libertà Gesù, i Giudei avrebbero gridato:”Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare!”

Nell'essere sottoposti all'autorità romana, i Giudei avevano l'arma della denunzia all'imperatore per difendersi dai soprusi più gravi (e nella lettera di Agrippa, riportata da Filone nella Legatio ad Caium, Pilato mostra di temere le denunce nei suoi confronti.

Un processo politico 

Quello davanti al governatore di Giudea è dunque un secondo processo, politico anziché religioso.

Per cosa viene condannato dunque Gesù in ultima istanza? Per maiestas, insomma era un sedizioso e attentava alla sicurezza dello stato.

Il motivo della condanna, che verrà riportata, come da uso romano, sulla croce, è “Il re dei Giudei”, cosa che i sommi sacerdoti mostrano di non gradire: “Non scrivere: il re dei Giudei, ma che egli ha detto: Io sono il re dei Giudei , ma Pilato conclude con “Ciò che ho scritto, ho scritto”.

Insomma, sulla sua effettiva regalità, questa era l'ultima parola.




1. Con questo genere di province parliamo in genere di territori di dimensioni contenute, che dipendono da dinasti e capi locali, e che sono, per lo più, scarsamente romanizzati e urbanizzati e necessitano di un controllo militare affidato non alle legioni, ma ai contingenti ausiliari

giovedì 9 novembre 2023

La prima basilica cristiana

Propriamente detta del SS.Salvatore e dei Ss.Giovanni Battista ed Evangelista, è la cattedrale di Roma. Stiamo parlando della chiesa di San Giovanni in Laterano.

L'imponente facciata attuale risale al 1732-35 ed è opera del Galilei e le statue che ne coronano la balaustra sono di Cristo, dei Ss. Giovanni Battista ed Evangelista e dei Dottori della Chiesa.
Tale facciata è svuotata in basso dal portico architravato e in alto dalla loggia ad arcate, che è trasposizione dell'invenzione cortonescadi S. Maria in via Lata2.




L'interno basilicale a 5 navate si presenta nel rifacimento del Borromini3, al quale si devono anche le sistemazioni dei più antichi monumenti funebri e le cappelle laterali. 

L'impianto originario di questa famosa basilica non è però seicentesco: si tratta infatti di fondazione costantiniana ed è solo a fine VI che assume l'attuale titolazione (anche per via dell'immagine acheropita del Sacro Volto custodita nella vicina cappella di S. Lorenzo in Palatino).

"E' del tutto probabile(..)che una vera architettura basilicale cristiana sia nata soltanto con Costantino, pur se non si può escludere che qualche edificio precostantiniano possa aver fornito eventuali spunti per lo sviluppo della planimetria e dell'alzato della prima grande basilica del mondo cristiano"4

Già a partire da Leon Battista Alberti, molti eruditi si sono cimentati con il tema dell'origine della basilica cristiana, dando però per scontato che ogni architettura dovesse ispirarsi comunque a precedenti edifici da considerare come modelli di riferimento.

Nella progettazione di un'opera architettonica, infatti, il primo elemento condizionante è la funzione cui l'edificio è destinato. Siamo qui in presenza di spazi con una un uso del tutto nuovo, di un culto del tutto nuovo, quello cristiano. Non saremmo quindi in presenza di una mera imitazione delle basiliche del mondo pagano, ma di un edificio così concepito per perseguire un preciso scopo.
Il luogo di questo culto doveva infatti contenere un numero enorme di persone e in esso doveva svolgersi  una cerimonia che aveva il suo fulcro non al centro, bensì nel polo terminale di una struttura longitudinale. Una tale aula rettangolare absidata ricorda le grandi aree tricilinari in voga in quell'epoca: in effetti essendo proprio un sacro convito che andava celebrandosi nel culto cristiano, ciò avrà suscitato nell'architetto proprio l'immagine delle aule tricilinari.
Il tipo di copertura, con tetto a spiovente, doveva essere inevitabile per un edificio di tal forma: la larghezza massima di una navata non poteva superare di molto i 25 m circa, in coerenza con le massime lunghezze ottenibili per le travi trasversali maggiori anche da alberi di altissimo fusto. Le navate poi dovevano essere in numero dispari, poiché la navata centrale, che era la più larga, doveva emergere rispetto alle altre per dare luce alla zona più importante dell'edificio. Inoltre poiché i fedeli dovevano aver modo di guardare verso il polo presbiteriale, i muri di partizione longitudinale, dovevano essere "permeabili" nella parte bassa e quindi poggiare necessariamente su sostegni più sottili possibili: le colonne dunque erano certo preferibili ai più massicci pilastri tipici delle basiliche civili del mondo romano, che non avevano la necessità di un permeabilità visiva in direzione obliqua. Qui però le colonne con architrave furono poste solo nella navata centrale, dove i muri più alti e quindi più pesanti consigliavano quel tipo di sostegni: nelle navatelle laterali si volle invece tentare un'innovazione che presentava dei vantaggi in quel senso: si preferirono  partizioni a colonne sormontate da arcate in laterizio, che potevano anche permettere una maggiore distanza tra le colonne e quindi una maggiore "trasparenza".


Assonometria ricostruttiva della fase costantiniana, da BRANDENBURG 2004
(in Lezioni di Archeolgia Cristiana)

Francesco Borromini si preoccupò di rilevare, prima della deprecabile distruzione, l'aspetto e la proporzione di un tratto di colonnato originario nella sua proporzione reale, che si arricchiva anche di una sorta di pulvini.
 
Quella della basilica Lateranense risulterebbe dunque essere una soluzione decisamente nuova anche perché, associata con la struttura laterizia, permetteva una maggiore elevazione dei muri sovrastanti e corrispondeva ad un'indiscutibile eleganza della struttura architettonica.

Un altro aspetto piuttosto innovativo della realizzazione lateranense è certo la notevole altezza della navata centrale rispetto alle laterali e ad un'altrettanto insolita parete terminale decisamente emergente nella quale si aprivano finestre ampie e numerose. Le basiliche civili a più navate di età classica sembra avessero infatti una limitatissima emergenza nella parte centrale. 5

Come detto all'inizio l'architettura e decorazioni attuali sono frutto di interventi di secoli (la basilica ha subito numerosi saccheggi e danneggiamenti nel corso della sua storia);

La porta centrale del portico ha i battenti dell'antica Curia Iulia presso il Foro romano, ma trasformati attorno al 1600 con l'aggiunta delle fasce di contorno (possono vedersi stemmi di Alessandro VII) per adattarli alle  nuove dimensioni.



Nello stesso portico troviamo anche un'antica statua di Costantino proviene dalla sue terme sul Quirinale.


A chiudere la navata centrale vi è un sontuoso ciborio gotico del 1367, decorato da affreschi di Barna di Siena.
Sotto il ciborio è conservato l'altare papale, che racchiude l'antico altare ligneo delle celebrazioni dei primi papi.
Nel Quattrocento la decorazione interna è affidata ai due maggiori esponenti dell'arte tardo-gotica, Pisanello e Gentile da Fabriano.
Il transetto è un interessante esempio di manierismo romano del tardo cinquecento.
Il prezioso soffitto ligneo dorato della navata centrale risale alla seconda metà del '500.
Delle metà del Seicento è il già citato intervento del Borromini.
La zona del presbiterio e dell'abside è stata rifatta nella seconda metà dell'800 da Francesco Vespignani, che ha ripetuto, senza alterarlo, lo schema originale dell'abside antica. In seguito a tale rifacimento è stato trasportato e pesantemente restaurato il mosaico che decora la semicalotta absidale, eseguito verso il 1290 da Jacopo Torriti.






Il chiostro è un capolavoro di arte cosmatesca, costruito nel 1215-32 dai Vassalletto6 (le volte degli ambulacri furono costruite posteriormente, insieme alla semirustica sopraelevazione ad arcate del loggiato).

L'innovazione di questa  basilica non è data sola dalla sua forma: all'intromissione progressiva del cristianesimo va riconosciuta in un decisivo mutamento delle polarità urbanistiche: non è più la sola area forense centro propulsivo e vitale della città romana, ma molteplici nuovi poli urbanistici, quelli della Roma cristiana, l'aulico complesso lateranense appunto e i santuari suburbani di Pietro e Paolo. Sono questi, ormai da tempo, i nuovi spazi dell'aggregazione collettiva (nel IX secolo troveremo l'area forense completamente privatizzata), situati non nel centro, ma in zone periferiche (anche per non dare troppo fastidio all'aristocrazia pagana).

Era infatti a sud-est della città, in prossimità delle Mura Aureliane -in particolare appena entrati dalla Porta Asinaria- che il cristianesimo, supportato in modo esplicito dall'evergetismo imperiale, si imponeva con una tangibilità senza precedenti in una macroarea acquisita dal demanio imperiale e che aveva assunto, dall'età severiana, caratteri di accentuata militarizzazione con la presenza dei Castra nova degli equites singulares7, sotto l'egida dell'adiacente palazzo imperiale del Sessorium. 
L'intervento di Costantino è ben documentato nella biografia di papa Silvestro nel Liber Pontificalis; Tale "(..)occupazione di spazi periferici per impianti di notevole importanza si inserisce entro una tendenza che si può ritenere in qualche modo tipica dell'urbanesimo tardoantico, dal carattere policentrico(..)che va a privilegiare appunto spazi urbani perimuranei" 8


S.Maria in via Lata

Sono molti gli elementi trionfali nella basilica, ad indicare l'esplicita protezione dell'imperatore, che aveva elargito grandissime donazioni. La macrodonazione al Laterano può essere vista come il "sigillo" di "protezione"imperiale. 

Note:
1. Pietro da Cortona (1596-1669)
2. L'attuale via del Corso
3. Francesco Borromini (1599-1667)
4. F.Guidobaldi "Architettura paleocristiana" p.366 in Lezioni di Archeologia Cristiana, a cura di Fabrizio Bisconti e Olof Brandt, Città del Vaticano 2014.
5. L'uso delle colonne nasce in Grecia per uso religioso, poi si diffonde nell'architettura pubblica e in seguito anche in case private.
6. Trattasi di una famiglia di marmorari, scultori e architetti romani, attivi nella seconda metà del XII e nel corso del XIII secolo.
7. Avevano combattuto con Massenzio.  Non si trattava di una decisione di solo carattere punitivo, ma dettata anche dal fatto che era ormai pericoloso mantenere una Roma militarizzata (gli imperatori venivano ormai eletti dai militari). Anche i castra praetoria con Costantino sono demilitarizzati.
8. L.Spera "La cristianizzazione di Roma: forme e tempi" in Lezioni di Archeologia Cristiana, a cura di Fabrizio Bisconti e Olof Brandt, Città del Vaticano 2014, p.224


Bibliografia:
F.BISCONTI -O.BRANDT (a cura di), Lezioni di archeologia cristiana, Città del Vaticano, 2014
Guida d'Italia - Roma, Touring Club Italiano, 2015

 

martedì 18 luglio 2023

Incendio di Roma e riforma urbanistica neroniana

L’incendio scoppiato a Roma nel 64 d.C. è passato alla storia. E’ altamente probabile che si sia trattato di un evento casuale: a Roma infatti gli incendi erano molto frequenti, a causa della strettezza e dell’intasamento dei vicoli, della concentrazione di legname e altri materiali infiammabili. Fu un vero e proprio flagello, una catastrofe: durò 10 giorni, dal 19 al 28 luglio. Il fuoco si sviluppò nella zona del Circo Massimo -quella confinante con Celio e Palatino -nei cui magazzini era stipata una grande quantità di merci. Botteghe, baracche di legno, merci infiammabili, in parte addossate al muro del Circo, furono subito preda delle fiamme. Di lì il fuoco raggiunse il Palatino. Sospinto da un forte vento aggredì il Foro Romano, il Velabro, il Foro Boario, trovando facile alimento «nelle vie strette e tortuose e negli immensi agglomerati di case della vecchia Roma».1 Le case antiche, infatti, avevano numerose parti di legno e lo stretto accostarsi delle insulae facilitava la propagazione delle fiamme.


Uno degli autori di riferimento per l’incendio è Tacito. Questo storico ci informa sulla sua estensione, scrivendo che solo quattro dei quartieri di Roma 2 erano rimasti intatti. Si salvarono infatti Porta Capena (I), Esquilino (V), Alta Semita (VI) o Via Lata (VII) e Trans Tiberim(XIV). Tre Regioni (l’XI, Circus Maximus, la X, Palatium, e la III Isis et Serapis) furono distrutte completamente 3 e altre sette danneggiate parzialmente. Fra i monumenti pubblici subirono grandissimi danni i templi di Giove e Apollo sul Palatino, quello di Vesta, la Biblioteca Palatina, il teatro di Marcello. Subirono ingenti danni anche la Domus Tiberiana e la stessa dimora di Nerone, la Domus Transitoria.4 Secondo quanto riportatoci da Torelli 5 sarebbero stati 200.000 i senza tetto e 10-12.000 le insulae distrutte: cifre che seppur approssimative danno un’idea dell’enormità del disastro. La serie di are che fu eretta ai tempi di Domiziano (81-96) lungo i limiti raggiunti dalle fiamme, permettono di averne un’idea precisa.
6
I danni di questo devastante incendio riemergono con evidenza dagli scavi. Le ricerche condotte nelle vicinanze dell’Arco di Costantino hanno riportato in luce i resti dell’antico santuario delle Curiae Veteres, cancellato dalle fiamme. Le gradinate calcinate dalle altissime temperature sono state trovate ancora sepolte dal crollo degli edifici circostanti, insieme a resti di travi carbonizzate e metalli fusi.7
Nell’immaginario collettivo Nerone viene spesso ricordato come l’autore dell’incendio: l’accusa nasce già in antico. Nella sua descrizione Tacito si preoccupa di riportarci le opinioni che circolavano a quel tempo sulla causa di un tale disastroso evento. Così scrive nei suoi Annales: «Seguì un disastro, non si sa dovuto al caso, oppure alla perfidia di Nerone, poiché gli storici interpretano la cosa nell’uno e nell’altro modo…».8 Lo storico ci informa che allo scoppio dell’incendio Nerone si trovava ad Anzio e non fece ritorno a Roma se non quando il fuoco si avvicinava alla sua casa - che sorgeva in continuazione del Palatino e dei giardini di Mecenate e che «non si poté impedire al fuoco di avvolgere il palazzo, la casa e tutti i luoghi circostanti» 9 La casa a cui fa riferimento è la Domus Transitoria.10 Per quanto riguarda le accuse all’Imperatore Tacito riporta la notizia che a Roma correva voce che proprio mentre la città bruciava, Nerone fosse salito sul palcoscenico del suo palazzo e avesse cantato la distruzione di Troia.11

Dal film "Quo vadis" (1951)

E che per stornare le accuse dalla sua persona non bastarono contributi e pratiche religiose propiziatorie, ma arrivò a servirsi dei cristiani della piccola comunità di Roma come capro espiatorio, facendo ricadere su di essi la colpa dell’incendio.12
Probabilmente il popolo e i senatori avevano visto una sorta di arroganza nel desiderio di costruzione della Domus Aurea, tanto più che Nerone aveva espropriato il suolo pubblico, privatizzandolo: atteggiamento completamente opposto a quello tenuto da Augusto e Agrippa nel Campo Marzio.13
Inoltre le crudeli esecuzioni a cui erano sottoposti i cristiani suscitarono compassione nell'opinione pubblica e la collera di quest’ultima diventò quasi incontrollabile quando si seppe che il focolaio del secondo incendio era stato localizzato proprio in un giardino di Tigellino.14 Nonostante dunque Nerone avesse accusato la comunità cristiana, continuò a circolare la voce che fosse stato proprio lui ad appiccare il fuoco allo scopo di impadronirsi di certi terreni che gli servivano per la costruzione della sua nuova residenza.

La Domus infatti andava ad inglobare quartieri popolari, ma anche edifici pubblici in via di costruzione, come il tempio di Claudio, iniziato nel 54 su richiesta di Agrippina, del quale vennero riutilizzate la sostruzioni del temenos per un grande ninfeo che doveva chiudere una delle prospettive della Domus. Infatti autori che scrivono sotto i successivi imperatori sembrano dare per certa la colpevolezza dell’Imperatore. Dure sono le parole di Svetonio, che scrive: «Non risparmiò né il popolo né le mura della sua patria».15 Tacito ci lascia intendere la sua posizione affermando che «delle rovine della patria Nerone si servì per costruirsi un palazzo».16 Anche Dione Cassio, nella sua Storia di Roma, mostra di credere a tali accuse. Il suo resoconto dell’incendio inizia proprio riferendo come da lungo tempo Nerone accarezzasse l’idea di veder perire una città tra le fiamme durante la sua vita, come Priamo di Troia, che egli riteneva estremamente felice per aver visto la sua patria e il suo potere abbattuti contemporaneamente.17 Al contrario, storici e scrittori come Cluvio Rufo, Flavio Giuseppe, Marziale –autori fortemente ostili all’Imperatore- ne sostengono l’innocenza.18 Sempre Tacito racconta di come si comportò Nerone di fronte ad una simile devastazione: per prestare soccorso al popolo rimasto senza dimora, l’Imperatore aprì il Campo Marzio e i giardini di Agrippa, fece costruire baracche provvisorie, fece arrivare da Ostia e città limitrofe beni di prima necessità e abbassò il prezzo del frumento.19
Della sua Storia di Roma, scritta agli inizi del III secolo d.C. , i libri che trattano del regno di Nerone ci sono giunti soltanto in un’epitome del monaco bizantino Giovanni Xiphilinus nell’XI secolo. Il resoconto dell’incendio è trattato nel libro LXII, 16-18.

Roma aveva subito un altro devastante incendio, quello del 19 luglio 390 a.C. ad opera dei Galli Senoni di Brenno. Anche allora si dovette ricostruire la città, ma quella volta non si adottò alcun piano regolatore, al contrario di quel che accadde dopo l’incendio del 64 d.C. Nerone infatti capì immediatamente il vantaggio che poteva trarre da una simile devastazione, scorgendo la possibilità di rimodellare la città, come un dinasta ellenistico: durante il suo regno sottopose così la città ad uno degli sconvolgimenti urbanistici più radicali della sua storia.
I provvedimenti presi da Nerone erano di natura essenzialmente pratica, dettati dalla ricerca di una maggiore sicurezza: «Quello che rimaneva della città, all’infuori del palazzo, fu riedificato non come era avvenuto dopo l’incendio dei Galli, senza un piano regolatore, con le case disposte qua e là a caso, senz’ordine alcuno, ma fu ben misurato il tracciato dei rioni dove furono fatte larghe strade, fu limitata l’altezza degli edifici, furono aperti cortili, a cui si aggiunsero portici».20 Inoltre prescrisse che gli edifici dovessero essere, in alcune loro parti, privi di travi di legno, bensì costruiti in una pietra refrattario al fuoco, chiamata pietra di Gabi o di Albano (e a questo proposito fa stanziare aiuti finanziari).21 Volle che davanti alle case e agli isolati ci fossero dei portici sormontati da terrazzi, da dove si potevano combattere gli incendi.22 Un altro provvedimento fu l’istituzione di un servizio di soccorso pubblico in caso d’incendio.23 E per prevenirne di nuovi istituì dei sorveglianti sull’acqua, affinché si prendessero cura che scorresse in grandi quantità e in più luoghi.24 Prescrisse inoltre che ciascuno dovesse tenere quanto potesse servire a spegnere il fuoco. Il sistema degli acquedotti venne rafforzato: si aggiunse così un ramo nuovo all’Aqua Claudia, l’acquedotto che incanalava l’acqua verso il Celio. Nella Forma Urbis Romae severiana25 si conservano poche tracce di questa organizzazione razionale della città. L’unica testimonianza archeologica è rappresentata dal tratto orientale della Via Sacra compreso tra la casa delle Vestali ed il clivus Palatinus: grandi isolati quadrangolari (insulae), di cui restano solo le fondamenta, si affacciano su entrambi i lati della strada, la cui larghezza è stata notevolmente ampliata.26 Tra le altre opere volute da Nerone ricordiamo: il tempio della Fortuna Seiani –situato all’interno della sua nuova residenza –la ricostruzione della Sacra via e la Porticus Miliaria, la ricostruzione del Circo Massimo, il nuovo anfiteatro di legno, la casa delle Vestali, il Campo neroniano, l’acquedotto Celimontano, il ponte neroniano, la pavimentazione del Clivio Palatino, il Bagno di Tigellino e il prolungamento delle condutture dell’acquedotto dell’Aqua Marcia sino all’Aventino.27 «Roma si trasformava in un cantiere nel quale si lavorava da ogni parte e in ogni forma di attività umana, come accade in tempi di grande ripresa edilizia. Da ogni parte dell’impero si richiedevano, merci, tecnici, lavoratori».28 Agli occhi di Nerone la ricostruire della città di Roma doveva apparire come una rinascita, una rifondazione simbolica, segno di una nuova “età dell’oro”. Il palazzo imperiale, dimora del dio Sole, rappresentava il punto di partenza e il centro del nuovo sistema urbano. Tacito, infatti, ci riferisce di una voce secondo cui «sembrava che Nerone ricercasse la gloria di fondare una città nuova e di darle il suo nome».29 Anche se dal punto di vista strettamente materiale non veniva rinnovata completamente, sul piano politico ed ideologico Roma doveva diventare una nova urbs, dove si ergeva il palazzo del Sole, che la illuminava coi suoi raggi di astro benefico.30 E. Cizek riferisce di un affresco del mercato di Pompei, realizzato poco dopo l’incendio, sembra così rappresentare l’Imperatore come un principe su uno sfondo di teatro, con in mano un trofeo, seduto su un cumulo di armi e coronato dalla Vittoria: «allusione, senza dubbio –secondo lo storico - all’identificazione di Nerone con Romolo».31

Il Grande Incendio e la Nuova Roma di Nerone, su PeriodicoDaily

Note:
1.TAC., XV, 38 
2. Le regiones amministrative in cui Augusto aveva suddiviso la città. 
3. CIZEK 1986, p. 277 
4.Ibidem
5. TORELLI 2007, p.215
6. PAOLUCCI 2011, p. 23
7. PAOLUCCI 2011, p. 27. Scrive inoltre che recenti indagini hanno confermato che l’immenso lago artificiale voluto da Nerone per la domus Aurea non fu scavato, ma creato mantenendo per il fondo la quota originaria e innalzando progressivamente i bordi con le macerie dei quartieri circostanti.
8. TAC., XV, 38
9. Ivi, 39
10. J. Malitz ritiene sia possibile che gli storici abbiano deliberatamente esagerato il suo ritardo e che, a dire il vero, al suo arrivo prestò energicamente aiuto alle persone minacciate dalle fiamme e a coloro che avevano già perso la casa (MALITZ 2003, p. 73)
11. TAC., XV, 39
12. Ivi, 44
13. TORELLI 2007, p. 216
14. MALITZ 2003, p. 73
15. SUET., VI, 38
16. TAC., XV, 42
17. DIO. Della sua Storia di Roma, scritta agli inizi del III secolo d.C. , i libri che trattano del regno di Nerone ci sono giunti soltanto in un’epitome del monaco bizantino Giovanni Xiphilinus nell’XI secolo. Il resoconto dell’incendio è trattato nel libro LXII, 16-18.
18. CIZEK 1986, p. 77
19. TAC., XV, 39
20. TAC., XV, 43
21. Ibidem
22. SUET., VI, 16
23. Già Augusto aveva organizzato un regolare servizio di pompieri (vigiles), ma questo provvedimento non fu mai realmente sufficiente per fronteggiare gli incendi più gravi.
24. Poiché accadeva che venisse deviata per abuso di privati.
25. Pianta della città di Roma su lastre di marmo, realizzata tra il 203 e il 211 e collocata nel Templum Pacis.
26. TORELLI 2007, p. 217
27. LEVI 1995, p. 218
28. Ibidem
29. TAC., XV, 40
30. CIZEK 1986, p. 281
31. Ibidem

Bibliografia:
PUBLIO CORNELIO TACITO, Annales
E. CIZEK, La Roma di Nerone, Milano, 1986
P. GROS - M. TORELLI,  Storia dell’urbanistica - il mondo romano, Bari, 2007
F. PAOLUCCI, Un artista al potere – i mille volti di Nerone in Archeologia Viva (Settembre/Ottobre 2011), pp. 16 – 27
J. MALITZ, Nerone, Bologna 2003
CASSIO DIONE, Storia di Roma
GAIO SVETONIO TRANQUILLO, De vita duodecim Caesarum
M. A. LEVI, Nerone e i suoi tempi, Milano, 1995

giovedì 9 giugno 2022

9 giugno 68, muore l'imperatore che volle essere il Sole

 “Quale artista muore con me!” avrebbe ripetuto continuamente Nerone mentre preparava la sua morte, poco prima di pugnalarsi alla gola con l’aiuto del fedele Epafrodito, il 9 giugno del 68 d.C.

Dichiarato nemico pubblico dal Senato – e questo dava la facoltà di ucciderlo come fosse un nemico di guerra – fuggì dal suo palazzo e pose così fine alla sua vita, a soli 32 anni.



Nato il 15 dicembre del 37 d.C. ad Anzio, prese il nome di Lucio Domizio Enobarbo Nerone.

Diventato imperatore giovanissimo -non ancora diciassettenne – il 13 ottobre del 54, vide salutare la sua salita al trono con grande entusiasmo da popolo e senatori.

Nerone, che all’esilio della madre era stato affidato alle cure della zia Domizia Lepida, era cresciuto in mezzo agli schiavi, interessandosi di musica, letteratura, teatro, corse di cavalli, poesia. La sua educazione era stata affidata a due liberti greci, Aniceto e Berillo – e poi a Cheremone, un sacerdote egizio che era stato direttore del museo di Alessandria – che certamente furono determinanti nell’indirizzarlo verso quel filo – ellenismo che avrebbe caratterizzato così fortemente la sua politica. I suoi interessi non furono certo convenzionali per un imperatore, così come non lo fu il suo modo di presentarsi: portava infatti i capelli lunghi fino alle spalle secondo una moda ricorrente tra gli aurighi, gli attori, e in genere le persone di basso ceto.

L’immagine che Nerone aveva voluto dare di se stesso era più vicina a quella di un dinasta ellenistico piuttosto che ad un imperatore romano: si era infatti fatto promotore di una monarchia teocratica, arrivando a rappresentare se stesso come il Sole, un dio.

Una manifestazione evidente della volontà di Nerone di presentarsi come un dio si ebbe nel 66 d.C. nelle celebrazioni della sottomissione dell’Armenia, durante le quali il sovrano Tiridate, nel ricevere la corona, si prostrò ai piedi dell’Imperatore riconoscendolo signore del mondo e incarnazione del dio iranico Mitra.

Quel giorno Nerone volle una sua rappresentazione su di un velo di porpora teso al di sopra del teatro di Pompeo come Sole conducente una quadriga in mezzo agli astri dorati.

Non solo in questa occasione si vede un Nerone assimilato al Sole: in un altare, dedicato da uno schiavo che lavorava alla costruzione della Domus Aurea -il sontuoso palazzo che si era fatto edificare a Roma- vi si trova rappresentato l’Imperatore col capo circondato dai raggi solari, così come lo si vedrà addirittura nella monetazione.

Come Sole si fece rappresentare dal greco Zenodoro, in una colossale statua posta nel vestibolo del magnifico palazzo che si era fatto costruire. Proprio nella Domus Aurea (della quale è venuto alla luce di recente un ambiente interamente affrescato, la Sala della Sfinge) il motivo solare era continuamente richiamato.

Nerone aveva voluto un perfetto orientamento est-ovest dell’edificio che si trovava su Colle Oppio, come rappresentazione simbolica del corso apparente del Sole, per ottenere il quale si erano richiesti enormi lavori di sbancamento del colle.




La stessa scelta dei materiali sarebbe stata condizionata dalla simbologia solare che l’Imperatore voleva promuore, con largo impiego di oro e bianco.

La Sala Ottagonale di Colle Oppio è orientata sulla posizione del sole al momento dell’equinozio del 64 d.C.: il cerchio dell’oculos, allineato col polo nord celeste, viene proiettato esattamente sulla parete nord, illuminando il ninfeo. In questo alcuni studiosi avrebbero identificato una corrispondenza con le sale del trono di Parti e Sassanidi.


In proporzioni e lusso il palazzo neroniano pare accostabile solo alle regge dinastiche orientali e ai palazzi di Alessandria d’Egitto.

La Domus Aurea può essere vista come una manifestazione architettonica del suo programma politico-ideologico e realizzazione dell’augurio di Seneca nell’Apokolokythosis, in cui il filosofo celebrò l’avvento dell’imperatore e l’alba di un nuovo secolo d’oro, facendo dire ad Apollo: “Come Lucifero, disperdendo gli astri che si dileguano, o quale Espero sorge al ritorno degli astri, o come il Sole, non appena la rosata Aurora, dissolta l’oscurità, riconduce il giorno, guarda rosseggiante il mondo e primamente slancia il carro fuori dai cancelli. Così appare Cesare, così ormai Roma contemplerà Nerone”.


Lo storico e biografo romano Svetonio conclude così la vicenda di Nerone: “Morì nel suo trentaduesimo anno d’età, nel giorno stesso in cui in passato, aveva fatto uccidere Ottavia; e tanto grande fu la pubblica gioia che il popolo scese in strada con il pileo in testa. Eppure non mancarono le persone che, per lungo tempo, adornarono la sua tomba con fiori dell’estate e con quelli della primavera, e che esposero ai Rostri delle sue statue vestite con la pretesta, e dei suoi editti in cui come se fosse stato ancora vivo, dichiarava che tra poco sarebbe tornato con grave danno per i propri nemici”.

articolo originale: https://www.periodicodaily.com/9-giugno-68-muore-limperatore-che-volle-essere-il-sole/

mercoledì 18 maggio 2022

Il Toro di Falaride

Falaride, tiranno di Akragas, fu reso protagonista di una serie di storie che risultano poco credibili all'uomo odierno. 

La più nota era quella che riguardava il suo toro di bronzo. Era vuoto al suo interno e dotato di una porta. 



Si narra che Falaride utilizzasse il toro come strumento di punizione: una vittima veniva fatta entrare al suo interno e sotto di esso veniva acceso un fuoco. Un sistema di tubi trasformava il lamenti nel verso dell'animale. 

Per coprire l'odore di carne bruciata venivano inserite anche aromi e spezie. 

Fu ideato da un bronzista, Perillo di Atene, per giustiziare i condannati a morte. 

Si narra che Falaride avesse fatto entrare il fonditore nel toro e una volta al suo interno avesse acceso il fuoco. Una volta tirato fuori, non solo non venne ricompensato per la sua invenzione, ma buttato giù da una rupe. 

Il toro compare anche fra gli scritti che trattano di un successore di Falaride, il tiranno Terone: in essi viene raccontato un finale alternativo dell'inventore Perillo. Si narra infatti che Falaride, sdegnato di fronte ad un simile strumento, avrebbe condannato il suo inventore a morire tramite la sua invenzione. Si dice che fu poi buttato a mare al largo delle coste di Agrigento, con ancora all'interno il corpo di Perillo. 




Lo scrittore greco Luciano di Samosata fa dire a Falaride le seguenti parole riguardo a Perillo e al toro:

"Un mio connazionale, un Perilaus, artista ammirevole ma di indole malvagia, aveva pensato di ottenere i miei favori con l’invenzione di una nuova forma di tortura. Pensava che le torture fossero la mia vera passione. Aprì la parte posteriore dell’animale e descrisse: “Quando hai intenzione di punire qualcuno lo chiudi dentro, applichi questi tubi alle narici del toro e ordini che vi sia acceso un fuoco sotto. L’occupante urlerà e la sua agonia sarà trasformata dai tubi nel più patetico e melodioso dei muggiti. La vostra vittima sarà punita e voi vi godrete la musica" (Luciano di Samosata, Falaride I)

Qualcuno narra che Falaride stesso sia stato vittima del toro, condannato dal tiranno Telemaco, che lo aveva spodestato. 

Che fine ha fatto la singolare scultura? 

Diodoro siculo (19.104.3) nel contesto dello scontro fra Cartaginesi e Siracusani presso Capo Ecnomo (311/310 a.C.) , parla anche di questo toro di bronzo. 

“I Cartaginesi occupavano il capo Ecnomo, che si dice fosse una fortezza di Falaride. Raccontano che lì il tiranno avesse posto il famoso toro di bronzo sotto il quale veniva acceso il fuoco per torturare gli accusati; proprio per la crudeltà adottata contro quelle vittime il luogo venne chiamato Ecnomo” .(Diodoro 19.108.1)

L'eknomia è la condizione al di fuori della legge, potrebbe quindi esservi un riferimento alla mostruosità, di Falaride nel punire le vittime nel toro oppure solo a un emporio preesistente al tiranno, caratterizzato dalla mancanza di applicazione delle leggi comuni.

Prosegue Diodoro dicendo che quasi 260 anni dopo il sacco di Cartagine, Scipione aveva restituito ad Akragas con altri oggetti di cui si erano impossessati i Cartaginesi quando avevano preso Agrigento nel 406 .a.C., anche il suddetto toro. 

Sempre secondo Diodoro Timeo nelle sue Storie avrebbe sostenuto che il toro non fosse mai esistito, ma questa sua affermazione è comunemente intesa dagli studiosi come un'errata interpretazione di un passo polemico di Polibio (Diodoro leggeva probabilmente l'opera di Timeo dalla critica di Polibio). 

Scrive infatti Polibio che “non potendo in nessun modo essere trovato un altro motivo, per il quale codesto toro fu portato a Cartagine, tuttavia Timeo si è messo sia a rovesciare l’opinione comune, sia a smentire le dichiarazioni dei poeti e degli storici, dicendo che il toro di Cartagine non era venuto da Agrigento e che questo non era mai stato nella suddetta città”, ma probabilmente Timeo non negava l'esistenza del toro, ma solo che quello che si trovava a Cartagine non proveniva da Agrigento e che quindi non fosse quello di Falaride. 

Pindaro infatti, scrivendo del pensiero di Timeo senza alcun intento polemico, riferisce che secondo questi alla morte del tiranno Falaride, gli abitanti di Agrigento avrebbero gettato il toro in mare. 


Come ‘l bue cicilian che mugghiò prima
col pianto di colui, e ciò fu dritto, 
che l’avea temperato con sua lima, 
 mugghiava con la voce de l’afflitto, 
 sí che, con tutto che fosse di rame, 
 pur el pareva dal dolor trafitto;
(Dante, Inferno, XXVII 7-12)



Bibliografia: 
Tony Spawforth, Breve storia della Grecia e di Roma
Vania Ghezzi, Ecnomo e il toro di Falaride