I Vangeli raccontano che Gesù viene arrestato mentre si trova nel
Gethsemani e condotto al sinedrio , presso il quale viene sottoposto
ad un vero e proprio processo, il cui verdetto è la condanna a
morte. Siamo però in un epoca in cui il sinedrio non ha più la
(piena) competenza giudiziaria sui delitti capitali. Occorre quindi
rivolgersi alle autorità competenti, che all'epoca erano i Romani,
in particolare la provincia di Giudea era governata da tale Ponzio
Pilato, il quale ha governato la provincia dal 26
al 36 o 37.
Quella
di Giudea era una provincia1affidata a cavalieri nominati dall'imperatore
ed esercitanti il comando militare e la giurisdizione.
Una
piccola parentesi sulla figura di Ponzio Pilato: non vi era nessuna
testimonianza materiale di quello che Tacito definisce come
“procurator”, fino a che pochi decenni fa, nel 1961, non venne
ritrovata ritrovata, dall'equipe italiana dell'Istituto Lombardo di
Scienze e Lettere di Milano, una lapide, riutilizzata in cima ad una
rampa di scalini nel teatro di Cesarea Marittima riportante
un'iscrizione che nomina proprio Ponzio Pilato, con una dedica
all'imperatore Tiberio.
[....PO]NTIUS PILATUS
[...PRAEF]ECTUS IUDA[EA]E
[..FECIT D]E[DICAVIT]»
Qui
a Pilato viene attribuito il titolo di "praefectus", diversamente da quanto riportato
da Tacito. Come spiegare questa discrepanza?
Le
due denominazioni con le quali sono conosciuti (presumibilmente in
successione) i loro “governatori” di provincia sono quelle di
praefectus e procurator. L'ipotesi più probabile è che l'originario
titolo di praefectus, presente in età augustea e tiberiana, sia
stato sostituito, per lo più, da quello di procurator a partire
dell'età di Claudio, fermo restando che le nostre fonti possono
anacronisticamente riferirsi a un cavaliere governatore di provincia
definendolo “procuratore”, laddove si tratta in realtà di
“prefetto”. Sarebbe questo il caso di Ponzio Pilato in Giuseppe Flavio
e in Tacito, il cui titolo ufficiale
doveva essere quello di prefetto, come ha definitivamente dimostrato
la testimonianza epigrafica di Cesarea Marittima.
Il procedimento giudiziario
Tornando
al processo, quelli in cui si svolgono i fatti sono i giorni della
Pasqua ebraica, periodo in cui c'è grande movimento e Pilato, che
abitualmente risiede a Cesarea Marittima, si trova a Gerusalemme,
cuore della fede ebraica in quanto sede del Tempio. In particolare
Pilato soggiornava nel palazzo di Erode, e qui è il pretorio, dove
avviene il nostro procedimento giudiziario.
Ovviamente
i membri del sinedrio non potevano far condannare a morte Gesù per
il motivo effettivo (blasfemia), quella era una questione religiosa,
occorreva quindi un pretesto da presentare al prefetto di Roma: ecco
così che la motivazione religiosa diventa una motivazione politica.
La
figura del Messia era quella di un discendente della famiglia di
Davide che avrebbe restaurato il regno di Israele, cacciando
l'invasore romano. Pilato non avrebbe potuto non prendere seriamente
un'accusa di questo genere: Gesù aveva la pretesa di essere re, il
re dei Giudei.
Noi
non abbiamo gli atti del processo, ma i resoconti dei vangeli si rivelano di una notevole
attendibilità storica: l'accusa, che Luca ci palesa e che negli
altri Vangeli si deduce dalle domande che questi pone all'imputato
durante l'interrogatorio, è quella di essersi dichiarato re dei Giudei: “Tu sei il re dei Giudei”? , chiede
infatti Pilato. I Vangeli ci dicono che Gesù risponde sì di essere
re, ma che il suo regno non è di questo mondo. Insomma, non mostrava
certo avere di mira di strappare la Giudea ai romani...
Qualcuno
si è chiesto se quello di Gesù si sia trattato di un vero e proprio
procedimento giudiziario: secondo lo storico F. Millar non ci sarebbe
stato un vero procedimento, non ci sarebbe stata né accusa né
difesa, nessuna opinione chiesta al consilium del governatore.
Bisogna però tenere conto che il racconto evangelico non ci consente
una ricostruzione precisa del processo nei termini rigorosi del
diritto dell'epoca, in quanto ad essere importante è il contenuto di
fede degli avvenimenti, non il resoconto storico. Si intravedono però
in tali racconti, pur nel loro carattere kerygmatico, elementi che
permettono di riconoscervi una vera e propria azione giudiziaria, come il riferimento
al βῆμα
(Gv.
19,13, Mt. 27,19), cioè al seggio del tribunale, su cui siede il
prefetto per emanare la condanna a morte; inoltre vi è anche
l'accusa da parte dei sinedriti e l'interrogatorio.
Pilato infatti
non si limita alla ratifica o alla delibazione della condanna del
sinedrio, ma procede all'interrogatorio personale dell'imputato per
giungere alla formulazione di una propria sentenza. Conduce quindi un
vero e proprio processo, della durata di varie ore, nel
quale verifica personalmente l'attendibilità dell'accusa dei Giudei.
Per
quanto riguarda il ricorso al consilium, bisogna dire che il caso
presentato non aveva caratteri di rilevanza e difficoltà tali da
richiedere il ricorso a pareri terzi. Nel processo penale romano, a
differenza di quello giudaico, il giudice ha infatti carattere
monocratico, non collegiale (cognitio extra ordinem).
Se
questo non bastasse, l'apposizione dell'iscrizione sulla croce col
motivo della condanna, sarebbe sufficiente a provare l'esistenza di
un verdetto formale.
Del
resto Pilato non si sarebbe piegato a far semplicemente da esecutore
di una condanna emanata dal sinedrio (peraltro Pilato non si mostra
affatto convinto del fatto che Gesù sia colpevole dell'accusa).
Il volere della folla
Il
comportamento di Pilato che dapprima stabilisce che non trova alcun
motivo di condanna nell'uomo che sta giudicando e che alla fine si
piega al volere della folla, va visto nel contesto politico del
governo romano della Giudea, contesto estremamente difficile e
tormentato.
Di
Pilato ci raccontano due autori ebrei, Filone Alessandrino e Giuseppe
Flavio, che ce lo presentano in maniera così negativa e in frequente
conflitto con i sudditi giudei, ma non deve essere stato un
pessimo governatore, se ha potuto reggere la provincia per dieci
anni. Se avesse governato così male difficilmente l'imperatore ve lo
avrebbe lasciato.
I
vangeli ci raccontano che mentre Pilato cercava di rimettere in
libertà Gesù, i Giudei avrebbero gridato:”Se liberi costui, non
sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare!”
Nell'essere
sottoposti all'autorità romana, i Giudei avevano l'arma della
denunzia all'imperatore per difendersi dai soprusi più gravi (e
nella lettera di Agrippa, riportata da Filone nella Legatio ad Caium,
Pilato mostra di temere le denunce nei suoi confronti.
Un processo politico
Quello
davanti al governatore di Giudea è dunque un secondo processo,
politico anziché religioso.
Per
cosa viene condannato dunque Gesù in ultima istanza? Per maiestas,
insomma era un sedizioso e attentava alla sicurezza dello stato.
Il
motivo della condanna, che verrà riportata, come da uso romano,
sulla croce, è “Il re dei Giudei”, cosa che i sommi sacerdoti
mostrano di non gradire: “Non scrivere: il re dei Giudei, ma che
egli ha detto: Io sono il re dei Giudei , ma Pilato conclude con “Ciò
che ho scritto, ho scritto”.
Insomma,
sulla sua effettiva regalità, questa era l'ultima parola.
1. Con questo genere di province parliamo in genere di territori di dimensioni contenute, che dipendono da dinasti e capi locali, e che sono, per lo più, scarsamente romanizzati e urbanizzati e necessitano di un controllo militare affidato non alle legioni, ma ai contingenti ausiliari